Con 166 voti a favore, 112 no ed 1 astenuto il Senato ha votato la fiducia al governo approvando definitivamente la legge delega, meglio nota come Jobs Act, ieri in terza lettura Il contratto a tutele crescenti, il superamento (quasi definitivo) dell’articolo 18 e quindi del reintegro nel posto di lavoro in caso di licenziamento ingiustificato. Le nuove regole sul demansionamento e sui controlli a distanza. La riscrittura delle norme sugli ammortizzatori sociali. Nove mesi dopo il via libera del Consiglio dei ministri, il Jobs act ha tagliato il traguardo dell’approvazione definitiva in Parlamento ed entrerà in vigore a giorni con la pubblicazione in Gazzetta ufficiale. Per produrre i primi effetti concreti, però, bisognerà attendere almeno un mese. Si tratta di un disegno di legge delega, che si limita a indicare i principi generali della riforma. Saranno poi almeno sei decreti delegati a definire i dettagli. Il pallino, stavolta, è direttamente nelle mani del governo. E alle Camere resta solo un parere non vincolante. Il testo
Il sistema di tutele
Il contratto a tempo indeterminato e a tutele crescenti dovrebbe diventare la «forma privilegiata» di accesso al mondo del lavoro. Per le aziende che lo utilizzeranno sarà prevista una serie di incentivi che lo renderà più conveniente, rispetto agli altri tipi di contratto, sia per le tasse da pagare sia per i contributi da versare. È vero che finora lo stesso «privilegio» era stato pensato per l’apprendistato, senza però mai dare i risultati sperati. Ma stavolta c’è l’impegno, sempre con i decreti attuativi, a sfoltire la lista delle altre forme contrattuali possibili, arrivando anche al «superamento» delle collaborazioni coordinate e continuative. Come scritto nella delega e come ribadito più volte dal governo, il contratto a tutele crescenti si applicherà solo ai nuovi assunti: non solo i giovani al primo contratto ma anche chi già adesso lavora e cambierà azienda. Almeno per ora, dunque, non cambia nulla per chi è già assunto con un contratto a tempo indeterminato. Ma secondo diversi esperti sarà difficile che questa divisione tra vecchi assunti, più garantiti, e nuovi assunti, regga nel tempo.
L’indennizzo
Ma cosa vuol dire tutele crescenti? Le tutele sono, in primo luogo, quelle che difendono il lavoratore dal licenziamento e crescono con l’anzianità di servizio, cioè con gli anni di lavoro nella stessa azienda. Per questo viene riscritto l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, con gli ultimi paletti messi nel passaggio alla Camera di dieci giorni fa. Non cambia niente per i licenziamenti nulli o discriminatori, cioè quelli motivati da ragioni politiche, religiose o di orientamento sessuale. In tutti i casi scatterà il reintegro nel posto di lavoro. Per i licenziamenti economici, quelli che dipendono dal cattivo andamento dell’azienda, a differenza di quanto avviene ora, il reintegro non sarà più possibile nemmeno se la motivazione è «manifestamente insussistente». Ci sarà invece un indennizzo che, il decreto attuativo dovrebbe fissare a una mensilità e mezzo per ogni anno di lavoro, fino ad un massimo di 24 mensilità.
Il nodo disciplinari
Il nodo più complicato da sciogliere riguarda i licenziamenti disciplinari, cioè quelli motivati dal comportamento del dipendente. Anche qui la regola è l’indennizzo crescente con l’anzianità, ma in tribunale il reintegro resterà possibile in alcune «specifiche fattispecie» che saranno definite nel decreto attuativo. L’idea è quella di consentire il reintegro solo quando l’azienda licenzia il dipendente con l’accusa di un reato grave che però lui non ha commesso. Ma la definizione è complessa e resta sempre in piedi la cosiddetta opzione spagnola: l’azienda potrebbe scegliere l’indennizzo anche se il giudice disponesse il reintegro. A quel punto, però, dovrebbe pagare un indennizzo ancora più alto. In ogni caso, per limitare il ricorso al giudice, sarà incentivata la conciliazione: l’azienda potrebbe versare subito un indennizzo al lavoratore, fino a 18 mensilità esentasse, con la possibilità di chiudere l’accordo in un mese.
Il demansionamento
È un punto di cui si è discusso poco ma non è meno importante. Sarà possibile affidare al lavoratore mansioni inferiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza in caso di riorganizzazione o ristrutturazione aziendale. Bisognerà trovare l’equilibrio tra «l’interesse dell’impresa all’utile impiego del personale» e quello «del lavoratore alla tutela del posto, della professionalità e delle condizioni di vita ed economiche», dice il testo della delega.
I controlli a distanza
I controlli a distanza da parte dell’azienda saranno possibili non direttamente sul lavoratore ma sugli impianti e anche sui dispositivi, come il cellulare e il computer. Oggi queste pratiche sono consentite solo in caso di accordo preventivo con i sindacati. È il caso dell’Acea, l’azienda che distribuisce acqua e luce a Roma, dove gli interventi di manutenzione vengono organizzati localizzando sul territorio le squadre di intervento. Una volta definito il decreto attuativo il preventivo accordo con i sindacati non sarà più necessario.
La cassa integrazione
La cassa integrazione non potrà più essere autorizzata in caso di cessazione definitiva dell’attività aziendale. Ma l’obiettivo è avere un sistema di garanzia che protegga pure le categorie oggi escluse. Anche l’indennità di disoccupazione sarà a tutele crescenti: proporzionale alla «pregressa storia contributiva» del lavoratore. (Lorenzo Salvia – Il Corriere della Sera)
Focus. CONTROLLI A DISTANZA. REGOLE DIVERSE PER IMPIANTI E STRUMENTI
Non dovrebbe essere necessario il via libera del sindacato e dell’Ispettorato per l’utilizzo di normali apparecchiature
Jobs Act prevede che i decreti legislativi delegati dovranno operare una «revisione della disciplina dei controlli a distanza sugli impianti e sugli strumenti di lavoro, tenendo conto dell’evoluzione tecnologica e contemperando le esigenze produttive ed organizzative dell’impresa con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore».
Il distinguo tra «impianti» e «strumenti di lavoro» induce a ritenere che i decreti che daranno attuazione alla legge delega vadano nella direzione di diversificare la disciplina applicabile alle due fattispecie. Cosa auspicabile, dato che la tematica relativa all’obsolescenza dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori riguarda proprio l’evoluzione tecnologica degli strumenti di lavoro: è evidente, infatti, che computer, smartphone, posta elettronica sono tutti strumenti in grado di determinare, per le loro stesse caratteristiche, forme di controllo indiretto dell’attività lavorativa (ovvero proprio quel tipo di controllo “preterintenzionale” che l’articolo 4 dello Statuto regola e disciplina con il previo accordo sindacale o l’autorizzazione dell’Ispettorato del Lavoro).
Ci si chiede allora se sia necessario per un datore di lavoro, prima di dotare i dipendenti di strumenti tecnologici, concludere accordi con le rappresentanze sindacali aziendali o richiedere l’autorizzazione dell’ispettorato.
La risposta non è banale, dato che la normativa in questione non ha subito modifiche dalla sua emanazione. Peraltro, negli anni ’70 neppure esisteva una compiuta disciplina della privacy – introdotta con la legge 675/96 ed oggi racchiusa nel Testo Unico del 2003 -, né un’Autorità Garante in grado di assicurare la tutela dei diritti e delle libertà fondamentali e il rispetto della dignità nel trattamento dei dati personali.
Ovvie ragioni di buon senso portano ad escludere interpretazioni restrittive: l’uso dei normali strumenti informatici (email, server aziendale, etc.) non necessita di accordo con le Rsa o autorizzazione dell’Ispettorato. L’evoluzione tecnologica, però, pone continui interrogativi. È il caso, ad esempio, del dispositivo di “geolocalizzazione” dei dipendenti tramite app installato su smartphone: le due aziende interessate, oltre a dare stretta applicazione ai criteri posti dal Garante Privacy – che ha prescritto l’adozione di specifiche misure a tutela della riservatezza e dignità dei lavoratori (quali la consapevolezza, da parte del dipendente, dell’attivazione del software, la raccolta di dati non in tempo reale, etc.) – hanno anche espletato la procedura prevista dall’articolo 4 dello Statuto, sottoscrivendo il relativo accordo.
Non a caso, a differenza di altri istituti dello Statuto dei lavoratori che hanno trovato nel tempo un’interpretazione stabile ed uniforme, l’articolo 4 continua a rappresentare una fonte inesauribile di contenzioso e di interpretazioni giurisprudenziali. È, dunque, auspicabile un intervento legislativo in grado di dare una definitiva e moderna disciplina ai controlli a distanza, con un testo normativo volto a fornire risposte concrete ed univoche alle molte incertezze sia dei datori di lavoro che degli stessi lavoratori. (Il Sole 24 Ore – 4 dicembre 2014)
Focus. PER I LICENZIAMENTI ECONOMICI RESTA L’INDENNIZZO. IN CASO DI ILLEGITTIMITÀ ESCLUSA LA REINTEGRA
Dovrebbe venire meno anche la discrezionalità del giudice nel determinare l’entità del risarcimento tra un minimo e un massimo
legge delega sul lavoro definitivamente approvata al Senato affida al governo il compito di delineare le caratteristiche del nuovo contratto a tutele crescenti, destinato a diventare, per i nuovi assunti, la forma comune del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Quello che differenzierà la nuova forma contrattuale (e quindi il regime applicabile ai nuovi assunti) dai contratti in corso, saranno le regole in materia di licenziamenti e, soprattutto, i rimedi in caso di licenziamento illegittimo. Questo naturalmente creerà una differenza di trattamento, destinata ad assorbirsi nel tempo, tra vecchi e nuovi assunti quanto a conseguenze del recesso. Sul punto però la delega è molto chiara: le nuove regole si applicheranno solo alle nuove assunzioni.
Ma quali saranno queste nuove regole? Il testo originariamente approvato al Senato, in prima lettura, si limitava ad affermare che le tutele dovessero essere, appunto, crescenti in relazione all’anzianità di servizio. Quello definitivo enuncia criteri direttivi molto più precisi. Innanzitutto si prevede che per i licenziamenti economici dovrà essere esclusa la reintegrazione: il rimedio sarà, in tutti i casi d’illegittimità, unicamente un indennizzo economico, «certo e crescente con l’anzianità di servizio».
Il fatto che l’indennizzo sia definito «certo» consente di ritenere che verrà superato l’attuale sistema che lascia alla discrezionalità del giudice, in caso di applicazione della sanzione economica, la determinazione del risarcimento tra un minimo e un massimo. Si andrà verosimilmente verso un sistema di indennizzo che prevede la corresponsione di una frazione della retribuzione (una mensilità o una mensilità e mezzo) per ogni anno di anzianità, con un tetto massimo (ed eventualmente uno minimo).
L’utilizzo della dizione «licenziamenti economici» consentirà di estendere anche ai licenziamenti collettivi l’esclusione della reintegrazione, che oggi invece si applica in caso di violazione dei criteri di scelta. Anche in questo caso si avrà, in un periodo transitorio che potrebbe essere anche lungo, una diversità di conseguenze sanzionatorie per il medesimo vizio nel medesimo licenziamento collettivo, a seconda che si tratti di vecchi o nuovi assunti.s
Il rimedio della reintegrazione sarà limitato ai licenziamenti nulli e discriminatori (lasciando pressoché inalterata la disciplina oggi vigente per tali ipotesi) e «a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare». Questo è certamente il punto più delicato sul quale il governo è chiamato ad intervenire: tracciare, nei licenziamenti per ragioni soggettive, il confine tra reintegrazione e indennizzo. Una strada potrebbe essere quella, recentemente indicata dalla Cassazione anche con riferimento alla legislazione vigente, di limitare la reintegrazione solo ed esclusivamente ai casi di totale insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.
In tutti gli altri casi, ivi compreso quello in cui il giudice ritenga il fatto (provato) non così grave da meritare il licenziamento, dovrebbe essere previsto il solo indennizzo. Si tratta di un punto particolarmente importante, dal momento che gran parte del contenzioso verte proprio sulla proporzionalità del licenziamento rispetto alla mancanza commessa dal lavoratore. Dovrebbe essere scontata l’eliminazione del riferimento obbligato alle tipizzazioni disciplinari dei contratti collettivi, che tanta incertezza hanno ingenerato per la genericità delle loro formulazioni e che mal si concilierebbe con il criterio direttivo della specificità delle ipotesi reintegratorie previsto dalla delega.
Altre ipotesi circolate nei giorni scorsi prevedono la limitazione della reintegrazione alle ipotesi di ritenuta insussistenza di condotte costituenti reato, che comporterebbe però un’inedita (e problematica) interferenza di valutazioni penalistiche nel diritto del lavoro. La (residua) sopravvivenza della reintegrazione potrebbe poi essere ulteriormente depotenziata dalla previsione, ventilata in questi giorni, della possibilità anche per il datore di lavore (oltre che per il lavoratore) di convertire la reintegrazione disposta dal giudice nel pagamento di un risarcimento “pesante”. (Il Sole 24 Ore – 4 dicembre 2014)
Focus. DECRETI DELEGATI IN ARRIVO: IL TETTO ALL’INDENNIZZO SARÀ DUE ANNI DI STIPENDIO
Indennizzo monetario al posto del reintegro al lavoro in tutti i licenziamenti economici ingiustificati e in quasi tutti quelli disciplinari. Reintegro per i licenziamenti discriminatori. Con i primi decreti attuativi del Jobs Act (saranno pronti intorno alle metà di questo mese) arriverà il nuovo contratto a tutele crescenti e la riforma radicale dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Le nuove regole si applicheranno solo ai nuovi assunti, per gli altri non cambierà nulla, con il rischio, però, che così si blocchi la mobilità da posto a posto. Le nuove regole scatteranno da gennaio insieme agli sgravi fiscali (eliminazione del costo del lavoro dal calcolo dell’Irap) e contributivi (azzeramento degli oneri sociali per i primi tre anni) previsti dalla legge di Stabilità per le nuove assunzioni a tempo indeterminato. Le tutele saranno crescenti in base all’anzianità di servizio del lavoratore: più anni di lavoro, più consistente il risarcimento.
Il governo punta a ridurre al minimo la discrezionalità dei giudici nei casi di licenziamenti individuali disciplinari. I tecnici che stanno scrivendo i decreti attuativi stanno ipotizzando di limitare la cosiddetta tutela reale (cioè il reintegro) al solo caso in cui un lavoratore viene licenziato con l’accusa, rivelatasi poi infondata, di aver commesso un reato. Tra le ipotesi resterebbe comunque anche quella di consentire al datore di lavoro di scegliere, dopo una sentenza favorevole al dipendente, tra il reintegro e il pagamento di un indennizzo rafforzato. Al massimo, in ogni caso, le mensilità che il licenziato porterebbe a casa arriverebbero a 24. Nelle prime bozze, il governo ne ipotizzava 36. Le imprese vorrebbero scendere ancora di più.
I decreti delegati che il governo sta scrivendo in queste ore sono però due (in tutto ne occorrono cinque entro giugno). Accanto a quello sul contratto a tutele crescenti, per i primi giorni di gennaio è atteso l’altro sulla nuova Aspi (Naspi), l’ammortizzatore sociale valido per tutti coloro che perdono il posto e hanno lavorato almeno tre mesi. Dunque anche per i precari oggi non coperti, come i cocopro (in attesa che questa forma contrattuale sia eliminata assieme ai cococo, come promesso da Renzi, da ultimo ieri sera in tv). I nodi aperti sono molti, dal costo — circa un miliardo e mezzo di euro in più rispetto a quanto si spende oggi per tutti gli ammortizzatori — alla platea, volendo includere almeno un altro milione e mezzo di lavoratori, fin qui reietti. Operazione non facile, ma essenziale perché il Jobs act funzioni davvero. I nuovi assunti, di fatto senza articolo 18, senza un sostegno significativo allorquando vengono messi alla porta — anche in modo illegittimo — rischiano il collasso sociale ed economico. Le prime ipotesi non a caso prevedono una durata più lunga dell’attuale Aspi: al massimo due anni per i lavoratori dipendenti, anziché uno o uno e mezzo, e al massimo sei mesi per gli atipici. (Repubblica – 4 dicembre 2014)
Focus. PRIMA SEMPLIFICAZIONE SULL’ART. 18. IL DECRETO È ATTESO ALLE CAMERE A METÀ DICEMBRE
Il primo decreto attuativo del Jobs act, convertito definitivamente ieri in legge, sarà quello con la normativa sul contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti per i nuovi assunti, che avrà impatto diretto sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. I tecnici di palazzo Chigi e ministero del Lavoro ci stanno lavorando da settimane, e nei prossimi giorni si stringeranno i tempi visto l’obiettivo del Governo di aver pronte le nuove norme già a gennaio.
I nodi principali di questo Dlgs, che dovrebbe arrivare sul tavolo del Consiglio dei ministri a metà dicembre, sono l’entità degli indennizzi nei casi di licenziamento economico illegittimo (qui scomparirà per sempre la tutela reale), che, dopo le ultime limature, non dovrebbero superare i tetti oggi previsti dalla legge Fornero (24 mensilità). Per non gravare eccessivamente sulle aziende. In caso di conciliazione si potrebbe scendere a 18 mesi (rispetto alle prime ipotesi di 24 mensilità). C’è poi da chiarire quali sono le “specifiche fattispecie” di licenziamento disciplinare per le quali resterà in piedi il reintegro, con l’ipotesi, emersa con sempre più insistenza nel corso delle ultime riunioni dei tecnici, di introdurre la clausola di “opting out”, cioè di consentire al datore di lavoro di poter scegliere di versare un maxiindennizzo al lavoratore al posto del reintegro disposto dal giudice. La clausola dell’opzione oggi è prevista per il solo lavoratore; ma l’estensione anche all’azienda non sarebbe una novità assoluta, visto che è normalmente legge in altri paesi Ue, come Spagna e Germania. Per le piccole imprese (quelle sotto il tetto dei 15 dipendenti) non dovrebbero esserci penalizzazioni (rispetto alla situazione attuale) con l’entrata in vigore del nuovo contratto a tutele crescenti.
Contemporaneamente, o nelle settimane immediatamente successive, dovrebbe essere varato anche il decreto-delegato con la nuova Aspi, rafforzata nella durata (non si sa se anche nell’importo), ed estesa a una prima platea di circa 350mila collaboratori (oggi in caso di perdita del lavoro non hanno tutele). La nuova Aspi, quasi sicuramente, vedrà la fusione tra le attuali Aspi e mini-Aspi. Il riordino degli ammortizzatori sociali (cassa integrazione) arriverà, probabilmente, in un momento successivo, visto che si tratta di una riforma “non a costo zero” e dovrà essere concordata con la Ragioneria generale dello Stato.
Molto atteso è anche il Dlgs che dovrà riscrivere lo Statuto dei lavoratori per arrivare a un codice semplificato del lavoro; e quello che ridisegnerà le politiche attive, storicamente l’anello debole del nostro mercato del lavoro (qui si dovrà sperimentare il contratto di ricollocazione). (Il Sole 24 Ore – 4 dicembre 2014)
4 dicembre 2014