di Maria Caramelli. Lo spettro della peste suina africana, dopo essersi aggirato per l’Europa, forse aiutato dalla poca trasparenza di alcuni Paesi dell’est, nei primi giorni dell’anno è arrivato in Italia.
Un cinghiale investito per strada in Piemonte è stato trovato infetto e ora quel cinghiale sta mettendo a rischio le nostre esportazioni di salumi e carni di maiale, del valore di quasi due miliardi di euro, per i blocchi imposti dai Paesi terzi, come hanno subito fatto Cina e Giappone.
Il virus della peste suina africana, che nulla a che fare con la peste dell’uomo, per il quale è assolutamente innocuo, ha un nome però che dice molto. Si tratta di una vera pestilenza per gli animali che colpisce, il maiale domestico e i suini selvatici come il cinghiale e il facocero in Africa. Per le zone infette tra Piemonte e Liguria è scattato obbligatoriamente un lockdown specifico per questa malattia, con il divieto di caccia e di escursioni nei boschi, nel tentativo di arrestare la diffusione del virus nelle aree limitrofe. Il virus della peste suina è infatti molto stabile, indifferente al congelamento, e chiunque arriva da una zona in cui c’è la malattia può diventarne un veicolo inconsapevole, trasportandolo con le scarpe o le ruote delle macchine.
La guerra adesso è quindi quella di evitare i
contatto tra i cinghiali portatori e i maiali domestici, al fine di salvare i nostri allevamenti dal disastro. La malattia, infatti, è terribilmente contagiosa e dopo dieci giorni le emorragie causate dal virus portano quasi sempre a morte l’animale. Non esistendo un vaccino né una terapia (i pochi sopravvissuti diventano portatori del virus per un anno) tutti gli animali devono essere uccisi. Ne sa qualcosa la Cina, il più grande produttore di carne suina al mondo, che poco prima del Covid aveva già visto una sensibile diminuzione del PIL per l’abbattimento di centinaia di migliaia di suini e il blocco alle esportazioni in tutto il mondo.
Come accade questa catastrofe? In Europa i propagatori della malattia sono i cinghiali, animali nomadi che possono diffondere il virus nell’ambiente attraverso qualsiasi contatto, ad esempio nutrendosi di rifiuti alimentari nelle aree urbane, oppure se cacciati e le loro parti abbandonate sul terreno. Per le zone infette tra Piemonte e Liguria è scattato obbligatoriamente un lockdown specifico per questa malattia, con il divieto di caccia e di escursioni, nel tentativo di arrestare la diffusione del virus nelle aree limitrofe. Il virus della peste suina è infatti molto stabile, indifferente al congelamento, e chiunque arriva da una zona in cui c’è la malattia può diventarne un veicolo inconsapevole, trasportandolo con le scarpe o le ruote delle macchine.
Il problema è che il numero dei cinghiali in Italia si è moltiplicato a dismisura negli ultimi anni per il continuo ripopolamento a scopi venatori, peraltro proibito dal 2017. Il “nuovo” cinghiale è un ibrido tra il cinghiale preesistente italiano, quello dell’Europa orientale importato per la caccia, e il maiale domestico. Per cui è molto più grosso e più prolifico di quello di quarant’anni fa. La pressione della caccia anziché diminuirli spinge automaticamente il branco a fare più cuccioli.
Un altro motivo di diffusione della peste suina africana è l’incremento delle zecche, che mordendo gli animali trasferiscono il virus da uno all’altro. Le zecche stanno aumentando in tutto il mondo a causa dell’aumento globale delle temperature e si servono degli animali selvatici per diffondere gli agenti patogeni.
L’origine della peste suina ha qualche punto in comune con quella del Covid, come la rottura dell’equilibrio naturale tra animali selvatici e uomo provocato da quest’ultimo, alcuni aspetti del climate change come il surriscaldamento, e la partenza da Paesi molto lontani in cui la sorveglianza veterinaria è un optional. Le conseguenze delle malattie animali sono spaventose per il comparto alimentare: questo virus del cinghiale significa mettere a rischio il lavoro di 25.000 aziende nel Paese.