di Aldo Cazzullo (Il Corriere della Sera). La caduta della Laguna non è solo un colpo duro per la sinistra; è il segno di uno sconvolgimento mai visto prima nella mappa elettorale del Paese. Per quasi settant’anni, gli italiani hanno votato più o meno nello stesso modo.
Sono cambiati partiti e leader, ma i rapporti di forza tra centrodestra e centrosinistra sono rimasti quelli. Nel 2008, per dire, il Pd di Veltroni prese la stessa percentuale del Pci di Berlinguer, negli stessi posti, con qualche voto operaio in meno al Nord e qualche voto clientelare in più a Roma e a Napoli. Poi qualcosa è cambiato. Il declino del berlusconismo e l’ascesa di Renzi hanno scompaginato gli schemi. La sinistra ha perso a Livorno, la città dei portuali e del congresso fondativo del partito comunista, e ha vinto a Treviso, la città del sindaco sceriffo Gentilini. Mai finora però erano cadute le roccaforti ex operaie del Nord: da quando esiste l’elezione diretta dei sindaci (1993), Torino, Genova, Venezia avevano sempre avuto un sindaco di centrosinistra. Qualche volta il ballottaggio è stato un duello fratricida: come quando a Torino Valentino Castellani sconfisse Diego Novelli; e come quando a Venezia Felice Casson fu sconfitto da Massimo Cacciari.
Anche stavolta Casson ha perso il ballottaggio; ma non contro il filosofo capace di destreggiarsi tra Potere operaio e gli studi sugli angeli, che cita Nietzsche in dialetto veneziano, bensì contro il padrone della squadra di basket e di un’agenzia di lavoro interinale, Luigi Brugnaro. Appoggiato dalla Lega e da Fratelli d’Italia. Una netta vittoria della destra, nella città dove anche i commercianti votavano a sinistra come i chimici di Marghera. Ieri notte Brugnaro era avanti a Cannaregio come a Campalto, zona rossa della terraferma; ed è proprio in terraferma che il crollo si è manifestato con maggiore evidenza.
Le cause sono molte. L’allentarsi delle appartenenze, qui come in tutta Italia. La spinta all’alternanza, che non fa mai male. La delusione per lo scandalo infinito del Mose, che ha travolto pure l’ex sindaco Orsoni, una delusione terribile per i veneziani: l’integerrimo procuratore di San Marco, l’amministrativista che affrontava i problemi con la cura meticolosa dell’orologiaio che smonta e rimonta gli ingranaggi, prendeva anche lui i soldi in nero dall’ingegner Mazzacurati; i vertici del partito sono stati prosciolti, ma l’inchiesta non ha dissipato del tutto le ombre che gravavano sul Pd veneziano.
Casson ha vinto le primarie perché ai militanti è parso che occorresse una figura forte per fronteggiare i poteri corruttori e i grandi interessi insediati in laguna; ma al secondo turno si è rivelato una figura divisiva. A niente è valso lo sforzo unitario di Nicola Pellicani, il candidato di Cacciari battuto alle primarie, figlio di uno storico dirigente del Pci, e dello scrittore Gianfranco Bettin, uomo di raccordo con i centri sociali, che si è anche sentito male in campagna elettorale e ha seguito lo spoglio dall’ospedale. La mobilitazione su cui contava la sinistra non c’è stata: si è votato meno che due settimane fa. E l’effetto Zaia non si è rivelato effimero: i leghisti, di solito restii a votare un candidato estraneo al partito, stavolta hanno creduto alla vittoria e hanno sostenuto Brugnaro.
Il nuovo sindaco è di fronte a un compito immane: rilanciare una città unica al mondo che si sta riducendo a vetrina. Brugnaro ha investito parecchi quattrini, la sua campagna è stata imponente. In passato Venezia aveva visto uscire sconfitti personaggi più noti di lui, come Renato Brunetta, spigoloso anche sotto elezioni («G’avemo l’acqua in casa!» le gridò una signora al Lido; «e in Africa i more de fame» fu la risposta. Va detto che nei giorni scorsi Brunetta aveva previsto la vittoria di Brugnaro: «Per Renzi sarà un colpo durissimo»).
In questi anni Venezia ha puntato con un certo successo sull’economia della conoscenza, in città ci sono fondazioni che attraggono ricercatori da tutto il mondo, attorno ai musei civici diretti da Gabriella Belli, alla Biennale di Baratta e agli investimenti di Pinault è cresciuto un importante polo di arte moderna e contemporanea; ma tutto appare inutile se il Mose compra i sindaci, se le grandi navi solcano il bacino di San Marco, se il display della farmacia di campo San Bartolomio continua a segnalare la fuga degli abitanti.
Il risultato di Venezia è storico, e non riguarda solo la città. Avrà ripercussioni su tutto il sistema politico. Per Renzi non è una sconfitta personale: Casson è stato uno degli avversari più duri delle sue riforme al Senato, e se non si fosse candidato a Venezia avrebbe forse seguito Civati; Brugnaro ha dichiarato di riconoscersi in Renzi e di cercare l’appoggio dei renziani. Ma il premier dovrebbe trarre dalla caduta di Venezia seri motivi di preoccupazione. Lo scontento e l’indignazione dei cittadini sono evidenti. Gli scandali puniscono chi governa, anche se non porta responsabilità dirette. I Cinque Stelle al ballottaggio non vanno a sinistra: i voti grillini si confermano in buona parte voti populisti, antisistema, antigoverno, anche se a volte premiano gauchisti radicali. La destra è competitiva, quando è unita. L’Italia è un Paese contendibile, per non dire «scalabile», come lo definì il premier. Renzi ha ancora in mano il pallino della politica italiana; ma non può dare per scontato nulla e da nessuna parte.
Ballottaggi, perde Renzi ma anche la minoranza Pd
di Lina Palmerini (Il Sole 24 Ore). È una sconfitta di Renzi ma non solo sua. È di tutto il Partito democratico. E non solo perché a Venezia ha perso Felice Casson, senatore della minoranza di sinistra e non certo renziano. Il punto politico vero di questa batosta elettorale è la debolezza del Pd di fronte a temi come l’immigrazione e la sicurezza. E infatti non c’è un messaggio chiaro ma c’è la solita risposta dell’accoglienza senza peraltro riuscire a farla in modo decoroso. È questo fallimento che ha bruciato e ha penalizzato un Pd che – prima – aveva sempre vinto le sue battaglie alle amministrative.
Ma è proprio perché è nelle città che si sta vivendo lo smarrimento e la preoccupazione per l’ondata migratoria, che adesso i sindaci Pd non sono più credibili. A questo punto, Matteo Renzi e tutto il partito invece di fare l’analisi del voto al Nazareno dovrebbero, subito, preoccuparsi di aggiornare la loro proposta su come gestire l’immigrazione in un mix di accoglienza e respingimenti, solidarietà ma soprattutto garanzia di sicurezza per gli italiani.
La risposta è totalmente inadeguata e questa volta non può essere la sinistra del Pd, i bersaniani o cuperliani, a processare Renzi. L’autocritica deve essere collettiva perché è anche la minoranza ad essere sconfitta in questo round amministrativo. E perfino quella tentazione di mettere insieme sinistra Pd e 5 Stelle ne esce clamorosamente battuta nonostante Venezia poteva essere il laboratorio perfetto per un’alleanza sui temi “giustizialisti”, viste le inchieste che hanno segnato la precedente amministrazione.
Il grande errore di Renzi è stato quello di evitare i luoghi della crisi di questi giorni: sarebbe dovuto andare alla stazione di Milano o di Roma e da lì rassicurare gli italiani con una risposta diversa o con l’annuncio di una nuova offensiva in ambito europeo. Questo è mancato e la sensazione è stata che il Governo non sapesse che pesci prendere. E che sulle città si sarebbero scaricate tutte le conseguenze.
Né basta più la risposta confusa del Pd sulla corruzione in cui è un po’ giustizialista, un po’ garantista. Il giustizialismo non basta a governare come dimostra la sconfitta, pesante, dell’ex magistrato Casson a Venezia. I cittadini hanno dimostrato che per amministrare non serve un curriculum da Pm ma competenza e buon senso.
15 giugno 2015