Francesco Maesano. La sanità italiana è paragonabile a un Moloch, una di quelle divinità che le antiche popolazioni del medioriente onoravano a costo di immani sacrifici. Basti pensare alla levata di scudi e alle «accuse» sdegnate di volerla privatizzare che seguirono all’osservazione dell’allora premier Monti, che nel 2012 provò a ragionare di sostenibilità del servizio sanitario nazionale.
Una divinità con molte braccia: i ventuno diversi sistemi sanitari ai quali ha dato vita la riforma del titolo V della Costituzione del 2001. Ventuno organizzazioni separate per ventuno territori con differente gettito fiscale e differente capacità di spesa.
E come ogni divinità, anch’essa ha i suoi sacerdoti. In via teorica sarebbero gli assessori regionali di competenza. In pratica in molte regioni, specialmente al Sud, i governatori hanno avocato a sé la delega in materia o gli è stata affidata la responsabilità di commissario ad acta dal governo. Questo perché la spesa sanitaria assorbe tra il 50 e il 75 per cento del bilancio delle Regioni e i presidenti, in un periodo di vacche magrissime tra il piano salute e i tagli ai trasferimenti, tendono sempre più a tenersela stretta.
Gli ultimi in ordine di tempo sono stati Michele Emiliano in Puglia e Luca Ceriscioli nelle Marche, che non hanno assegnato la delega lasciandola in pancia alla presidenza. Il nuovo governatore marchigiano, unico caso in Italia, ha tenuto per sé anche quella ai servizi sociali: in tutto parliamo di circa il 90 per cento del bilancio regionale. Ceriscioli promette che questo incarico da dominus indiscusso sarà «a tempo determinato, per rimettere sui binari due settori che hanno bisogno per ragioni diverse di poter essere inquadrati insieme: credo sia l’unico modo per gestire quella zona di confine socio-sanitaria che è strategica per l’intero sistema. Non riesco a distaccare i due settori».
Stesso discorso per Emiliano, che aveva già annunciato in campagna elettorale di voler tenere per sé la delega, poche ore dopo l’insediamento aveva già la testa proiettata al rientro del deficit sanitario. «Confermo l’impegno a modificare la negativa tradizione della Puglia nello sforamento del tetto della spesa sanitaria – ha messo in chiaro da subito – tutte le indicazioni ricevute dalla Corte dei conti saranno tenute in debita considerazione: mi riferisco soprattutto alla difficoltà di controllare la spesa farmaceutica, situazione storicamente stabilizzata che avrebbe bisogno di interventi più intensi e radicali».
Vincenzo De Luca invece non ha neanche dovuto formalizzare la decisione di tenersi la delega per una ragione molto semplice: la sanità in regione è commissariata. «Stabilizzeremo i precari – ha assicurato – siamo convinti di poter risolvere il problema entro novembre. Questo è il mio obiettivo. Entro luglio verificheremo con quali procedure». Come lui, i presidenti di regione sono commissari anche nel Lazio, nel Molise, in Abruzzo. In Calabria no. Lì il commissario è l’ingegner Massimo Scura che è subentrato a marzo al generale Pezzi, a sua volta nominato in sostituzione dell’ex presidente Giuseppe Scopelliti.
C’è poi la Sicilia. Lì fino alla scorsa settimana l’assessore c’era. Era Lucia Borsellino, figlia del giudice ucciso nella strage di via d’Amelio. S’è dimessa dopo l’arresto del primario Matteo Tutino, vicino al presidente Crocetta, che per tutta risposta ha ripreso la delega dicendo di voler «decidere con calma» il nome del successore. E, nel frattempo, ha nominato una commissione di sei saggi e si è tuffato a capofitto nel nuovo incarico di assessore.
La Stampa – 8 luglio 2015