Filippo Tosatto. Colpo di scena nella lunga saga “tossica” dei Pfas, le sostanze perfluoroalchiliche di produzione industriale che nel corso di un decennio hanno contaminato le acque e il sottosuolo di 85 comuni – in larga parte vicentini con “frange” padovane e veronesi – costringendo la sanità del Veneto ad allestire un piano d’emergenza senza precedenti che include una vasta bonifica idrica ed il monitoraggio medico prolungato della popolazione più “esposta” ai veleni.
Il nuovo casus belli è rappresentato dal rinnovo quadriennale della concessione agli scarichi industriali e all’esercizio del collettore del Consorzio Arica nel fiume Fratta a Cotogna Veneta, a ridosso della “zona rossa” della superficie contaminata: il decreto di autorizzazione, firmato da un dirigente del dipartimento tutela ambientale della Regione, Marco Puiatti, è duramente contestato dal ministero dell’Ambiente che lo giudica permissivo, priva di «restrizioni cogenti» e tale da non garantire la prevenzione di ulteriori inquinamenti.
In particolare, nella sua lettera a Palazzo Balbi, il caposettore salvaguardia del dicastero, Gaia Checcucci, sottolinea che l’Istituto superiore di sanità auspica «la completa eliminazione dei Pfas» e che i valori-limite indicati dall’Iss non vanno intesi come «obiettivi» ma come riferimenti «immediatamente applicabili». L’altra faccia della questione, in verità, investe il vuoto legislativo in materia: non esiste, ad oggi, una tabella che fissi i limiti accettabili dei Pfas e tale carenza, imputabile a Governo e Parlamento, complica le politiche di tutela ed espone le istituzioni ai ricorsi legali dei soggetti privati coinvolti. Tant’è. La Regione, adottando il principio di precauzione, ha deciso di fare retromarcia, modificando radicalmente il decreto di rinnovo dell’autorizzazione (la precedente è scaduta il 30 giugno), con l’annullamento dei punti precedenti riguardanti le concentrazioni chimiche consentite e l’introduzione dei nuovi «valori limite di performance tecnologica» suggeriti dall’Iss – attenzione al termine, perché di indicazioni scientifiche si tratta, non di dettati giuridici – distinti in percentuali di microgrammo per litro e graduati secondo la catena di sostanze che compongono la “famiglia” dei Pfas. «Ci adeguiamo alla perentoria imposizione dello Stato», taglia corto il direttore del dipartimento ambiente, Alessandro Benassi. Meno asettico l’assessore Gianpaolo Bottacin: «L’intervento ministeriale mira soltanto a mettere i bastoni tra le ruote al Veneto, l’unica regione impegnata ad affrontare seriamente il problema Pfas, figlio della latitanza romana in materia legislativa».
E ora? Il giro di vite colpisce soprattutto Miteni spa, la società chimica che – additata da più parti come la fonte principale della contaminazione. Facile prevedere un’impugnazione del nuovo decreto da parte dell’azienda multinazionale, con conseguente causa risarcitoria. Se arriverà una richiesta di danni – sibilano al Balbi – sarà nostra cura trasmetterla al ministero. (Il Mattino di Padova – 23 luglio 2016)
Limiti Pfas, le aziende rischiano di chiudere Miteni: «Pronti a ricorrere in tribunale»
Dopo il caso dell’inquinamento della falda fra Verona, Vicenza e Padova, i composti perfluoroalchilici rischiano di diventare l’incubo delle industrie. Per via degli scarichi: dal livello ministeriale è arrivata un’indicazione al Veneto di applicare limiti sui reflui molto più stringenti anche rispetto alla legge vigente.
«Da un giorno all’altro è impossibile, si rischiano chiusure di fabbriche a tappeto» è la critica di Confindustria. Dalla Miteni di Trissino – stabilimento produttore di Pfas, ieri a porte aperte al pubblico – l’allarme è analogo: «Una direttiva ministeriale non può aver più valore di un decreto legge. Il Tar avrà molto lavoro, a breve» dichiara l’ad Antonio Nardone.
Gli impermeabilizzanti Pfas – impiegati in diversi processi industriali – sono stati oggetto il 6 luglio di un decreto legge che, recependo una direttiva europea, ha fissato soglie-limite pari a quelle del resto del continente. La Regione Veneto, rinnovando la concessione al consorzio Arica che raccoglie 5 depuratori e 500 industrie nell’Ovest Vicentino, ha imposto soglie ancora più restrittive: un obiettivo da «primi della classe», ma da ottenere nel giro di 4 anni (entro il 2020).
Nei giorni scorsi da Roma è arrivata un’interpretazione draconiana: il «giro di vite» in Veneto deve scattare subito. Se Arica ha subito fatto obiezioni – per il presidente Antonio Mondardo c’è un rischio chiusura per centinaia di aziende – pure Confindustria Veneto non nasconde perplessità. «Nessuno vuole inquinare – precisa Luca Iazzolino, delegato regionale per l’ambiente – ma se non ci si occupa di un problema per anni, come si fa a pretendere che sia risolto tutto e subito? Serve un periodo di passaggio. E c’è anche il tema degli scarichi domestici».
Luca Passadore, vicedirettore di Confindustria che segue i temi ambientali regionali, teme «chiusure a tappeto. Guardiamo ad Arica: lì confluiscono i reflui di centinaia di realtà dalla concia alla plastica, alla metalmeccanica». Alla Miteni il timore è di dover chiudere. «Produciamo solo Pfas di tipo 4C, non più i Pfoa e Pfos. Ma dovremmo comunque ridurre dall’oggi al domani di 50mila volte i reflui, è impossibile – osserva Nardone – e quello che vale per noi vale per concerie, cartiere, verniciature e altri. Siamo pronti all’azione legale». Stefano Fracasso, consigliere veneto del Pd, attacca Giunta regionale e consiglio di bacino: «C’è stata una totale assenza di regia». (Andrea Alba – Il Corriere del Veneto – 24 luglio 2016)
24 luglio 2016