Cara Rossini, nella deriva del politicamente corretto che già ci ha ragalato i diversamente alti al posto dei bassi, gli operatori ecologici al posto degli spazzini e tante altre ipocrite definizioni, ne hanno inventata un’altra. D’ora in poi i pazienti non saranno più tali, ma verranno ribattezzati “persone assistite”.
Lo sancisce il nuovo codice deontologico dell’Ordine dei medici e pare che ci abbiano messo anni di discussioni per arrivare a questo risultato, che nelle intenzioni dovrebbe trasmettere l’idea che chi sta chiedendo aiuto a un medico “ha il diritto di ricevere cure e assistenza senza passività”. Forse hanno pensato che il termine paziente è brutto perché fa pensare che ci vuole tanta pazienza per sopportare la nostra classe medica. E almeno in questo non avrebbero torto. Ma si dà il caso che il termine non deriva da “pazientare”, bensì da “patire” (dal latino patio) di cui è il participio presente con il significato di qualcuno che sta soffrendo. Etimologia a parte, trovo comunque futile e insensato occuparsi di parole quando la nostra sanità boccheggia e i cosiddetti dirigenti medici (cioè i vecchi primari, anch’essi ribattezzati come se fossero manager) sono tornati a dividere il loro tempo tra l’ospedale, che gli dà competenze e fama e le cliniche private, che li arricchiscono, mandando all’aria l’unica riforma degna di questo nome che il nostro Paese abbia avuto in vent’anni: quella sanitaria fatta dall’allora ministro Bindi nel primo governo Prodi. Sono uno studente di medicina all’ultimo anno di corso e mi sono giurato che mai userò questo ridicolo termine con i miei futuri pazienti. A. Corradi
Ha ragione su tutto. Non è cambiando nome alle cose, o peggio, alle persone,
che si smussano i problemi. Ma le scorciatoie e i colpi d’immagine sembrano ormai obbligatori in ogni professione. Dubito comunque che il termine avrà successo.
Se lo immagina un colloquio tra specialisti con frasi del tipo: «Ho visitato la tua persona assistita, ma avrei il caso di una mia persona assistita da sottoporti».
C’è da chiedersi piuttosto perché l’Ordine dei medici non si sia mai occupato
di un’abitudine diffusa e, questa sì, umanamente scorretta. Parlo dell’uso di dare del tu ai pazienti, che interviene spesso quando questi sono nei momenti di maggior passività e fragilità. Viene fatta passare per empatia benevola. Ma è spudorato esercizio di potere.
L’Espresso – 30 agosto 2013