Le aziende che ottengono i risultati complessivamente migliori sono praticamente tutte al Centro-Nord, lasciando alle Ao del Sud l’eccellenza solo in qualche singolo e isolato esito.
Rappresentano l’eccellenza delle cure in ospedale, ma non per questo le loro prestazioni sono sempre al top della qualità. Sono le 114 aziende ospedaliere e ospedaliero-universitarie italiane (le Aou, universitarie integrate con il Ssn e le Aouu, ospedaliere integrate con l’Università, secondo la definizione ufficiale), di cui solo il 32% ottiene nei sette indicatori di esito considerati più collaudati e attendibili, un risultato migliore della media nazionale calcolata sulle oltre 1.400 strutture di ricovero pubbliche e private accreditate. E praticamente nessuna raggiunge il risultato benchmark ideale calcolato in base al mix risultati-rischi. In questo quadro, le aziende che ottengono i risultati complessivamente – e mediamente – migliori sono praticamente tutte al Centro-Nord, lasciando alle Ao del Sud l’eccellenza solo in qualche singolo e isolato esito.
Sono questi, in sintesi, i risultati di un confronto che Il Sole-24 Ore Sanità ha condotto su sette esiti del Programma nazionale 2012 analizzando i risultati e considerando come valido il «rischio aggiustato», ma riportando, dove questo non è calcolato, anche il «rischio grezzo» ottenuto nel 2011 dalle aziende ospedaliere (esclusi gli Irccs).
La media delle eccellenze. Attribuendo un punteggio scalare ai singoli esiti, è stata realizzata una classifica non esclusivamente rispetto ai risultati ottenuti – che possono comunque essere clinicamente validi – ma rispetto alla completezza di questi in confronto sia della media nazionale sempre riferita al 2011 che del valore benchmark. Le Regioni che compaiono in modo costante con le loro aziende tra le prime 40 in classifica (circa un terzo del totale) sono quelle considerate da sempre virtuose (spesa a parte): Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna, Toscana e Umbria (che su due Ao ne ha una tra le prime 40). Unica eccezione rilevante al Sud è la Basilicata, la cui unica azienda ospedaliera si piazza al 12° posto nella classifica. E Lazio, Marche, Campania e Puglia compaiono grazie a singole eccellenze che raggiungono risultati mediamente alti in tutti e sette gli esiti: il Gemelli e il San Camillo di Roma, il San Salvatore di Pesaro, il Monaldi di Napoli e l’Aou di Bari.
Gli esiti di mortalità. Si tratta di tre indicatori di mortalità a 30 giorni, tutti relativi a interventi cardiologici, i più consolidati tra quelli rilevati dal Programma nazionale: Ptca (angioplastica), bypass e valvuloplastica. Tra questi l’indicatore con il minore numero di risultati con rischio aggiustato è l’angioplastica e quello meno eseguito il bypass. Tuttavia dai risultati si nota subito che a essere sempre sopra la media nazionale sono quasi tutte le aziende del Centro-Nord, mentre al Sud le eccezioni sono relative a singole aziende, al massimo una o due per Regione. Nessuna però ha raggiunto il risultato benchmark e quella che si avvicina di più nella sola angioplastica – a conferma dell’eccezionalità dei casi – è proprio un’azienda del Sud, il Papardo di Messina, che con lo 0,9% di mortalità sfiora lo 0,27% considerato benchmark.
Gli esiti di appropriatezza. Si tratta delle percentuali relative a tipologie di interventi considerate appropriate rispetto a quelle di routine. Sono le colecistectomie laparoscopiche (da preferire a quelle più invasive laparotomiche), la loro degenza post operatoria breve entro 3 giorni e le fratture di femore operate entro 48 ore, che negli anziani rappresentano una necessità spesso salvavita. Anche in questo caso i valori superiori alla media nazionale di appropriatezza sono praticamente tutti al Centro-Nord. E nessuna azienda raggiunge il valore benchmark “ideale” tranne un’unica eccezione ancora una volta al Sud: gli ospedali riuniti di Reggio Calabria che con il 98,11% superano il 97,26% considerato benchmark per la proporzione di colecistectomie laparoscopiche.
Il parto cesareo. Un caso a parte è il taglio cesareo primario. Nessun ospedale a livello nazionale (tranne pochissime eccezioni e non negli ospedali azienda:si vedano i risultati generali del Programma nazionale esiti 2012 su Il Sole-24 Ore Sanità n. 37/2012e tutti gli indicatori su questo sito) si avvicina alla percentuale “accettata” come benchmark: la media nazionale è del 27,42% sul totale dei parti e quella benchmark sarebbe di poco meno del 4%. E una sola azienda ha un rischio aggiustato inferiore al 10%: l’Ao Civile di Vimercate (Milano) con il 7,3%. Ci sono poi situazioni limite legate alla programmazione regionale. L’esempio è l’Ao S. Anna in Piemonte che si occupa praticamente solo di salute materno-infantile e che in questo senso raggiunge un risultato ottimale con poco più del 15% di cesarei primari sul record a livello nazionale di interventi eseguiti: 5.985. E il Meyer di Firenze per il quale non è disponibile il risultato aggiustato, ma al quale comunque la programmazione regionale affida praticamente il compito di eseguire i cesarei nella Regione e, quindi, presenta un risultato scarsamente confrontabile con le altre Ao di “libera scelta” dei cittadini. Anche in questo caso comunque sono le aziende del Centro-Nord (ma soprattutto del Nord) a ottenere valori al di sotto della media nazionale, mentre il cesareo è la “bestia nera” del Sud dove le percentuali – sempre considerando il solo rischio aggiustato – raggiungono nelle Ao, culla dell’eccellenza, anche il 64 per cento.
L’intervista
Troise (Anaao): «Ospedali a rischio abbandonando il personale»
Personale dimenticato, ma anche personale come unica garanzia di qualità per gli ospedali. Non ha dubbi Costantino Troise, segretario nazionale dell’Anaao-Assomed, sulla necessità che le manovre sanitarie rimettano al centro la professionalità degli operatori e li manifesta in un’intervista pubblicata sul n. 12 de Il Sole-24 Ore Sanità. Troise ribadisce l’obbligo di smetterla con i tagli «rispetto ai quali abbiamo già dato come medici e pubblici dipendenti». «Non renderemo certo prioritaria la questione delle nostre buste paga – ammonisce – che in questi anni hanno perso un terzo del loro potere di acquisto, ma se si continuerà sulla strada di riforme che lasciano fuori della porta il personale al punto di ipotizzare un prolungamento del blocco dei contratti, considereremo questo atteggiamento un messaggio chiaro per le prossime tornate elettorali».
«Il blocco del turn over e il peggioramento delle condizioni di lavoro – spiega Troise – hanno realizzato una miscela che non solo porta meno posti letto, ma anche meno personale. Il che vuol dire meno prestazioni, meno servizi e di minor qualità. Siamo a un punto molto pericoloso al di là del quale c’è un non ritorno e sarà faticoso recuperare un sistema che mantenga i risultati riconosciuti all’Italia a livello internazionale. L’aggravarsi della frattura tra Nord e Sud – come tutti gli indicatori mostrano – e l’insoddisfazione dei cittadini di queste Regioni verso la Sanità pubblica, sta mettendo a serio rischio l’esigibilità del diritto costituzionale alla salute. In più si accende anche il conflitto istituzionale tra Regioni e Governo che ci dice due cose: o si va a una riflessione sulla revisione del sistema federale o, per mantenere l’impianto attuale, occorre potenziare il ruolo, anche ispettivo e di vigilanza, della Salute, finora “dipartimento” dell’Economia in sorveglianza vigilata».
E il segretario dell’Anaao non manca di puntare il dito verso il regolamento sugli standard ospedalieri ancora in ballo tra Regioni e Governo: «Quel regolamento non si sa che valore abbia, se vincolante o indicativo, ma intanto alcune Regioni, mentre fanno finta di litigare sulla questione che secondo me è solo simbolica, hanno già fatto quello che il provvedimento prevede e anche di più: hanno tagliato posti letto, strutture complesse, strutture semplici, inseguendo su questa via una mitica riduzione della spesa. Per di più quel regolamento ha una carenza clamorosa: si addentra in questioni che attengono alla dimensione organizzativa delle strutture ma niente dice sul personale, come se al posto letto per funzionare non dovessero servire medici e infermieri. È solo un modo per gettare fumo negli occhi ai cittadini facendo vedere che si tagliano i primari, ma aumentando poi ticket e tasse».
Secondo Troise «una volta ridisegnata la rete, occorre dare attenzione alle risorse umane piuttosto che a quelle strutturali, perché un’organizzazione senza medici è monca e può rispondere forse a princìpi di risparmio, ma non a quelli di efficacia come è giusto che sia per una struttura sanitaria. Si tratta della salute dei cittadini, non di bilanci», il tutto valorizzando «merito e professionalità» degli operatori e con la massima attenzione «alle condizioni di lavoro come fattore anche di sicurezza delle cure e alle questioni organizzative».
Il Sole 24 Ore sanità – 3 aprile 2013