La nozione di «handicap», prevista dalla direttiva UE n. 78/2000, comprende anche malattie curabili o incurabili che comportino una limitazione di lunga durata alla piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.
Se la persona può eseguire il lavoro in maniera ridotta, il datore di lavoro deve ridurne l’orario, se non ne derivano oneri eccessivi. Il preavviso «corto» del licenziamento per lunghe assenze in malattia, è discriminatorio se applicato anche ai disabili. La Corte di Giustizia Europea ha deciso, riunendole, le cause C-335/11 e C-337/11.
Danimarca: licenziamenti per malattia. Una donna ha dei dolori cronici a livello della colonna dorso-lombare che non sono trattabili, senza alcuna possibilità di prevedere quando possa riprendere l’attività professionale a tempo pieno. Essendo stata assente a più riprese tra giugno e novembre, viene licenziata. Trova lavoro come receptionist in un’altra azienda per 20 ore settimanali e con una postazione dotata di scrivania regolabile. Un’altra donna viene anch’essa licenziata, da un’altra società, per le lunghe assenze di malattia, a seguito di un colpo di frusta causato da un incidente stradale. Trova lavoro in un’altra azienda, dove le viene riconosciuta la capacità di lavorare otto ore settimanali. Viene invece poi messa a riposo per totale incapacità lavorativa, visto il grado di invalidità al 10% e il grado d’incapacità al 50%, successivamente rivalutata al 65%. Entrambe le donne sono state licenziate con un tempo di preavviso ridotto, un solo mese, previsto dal diritto danese per quei casi di malattia protratti per 4 mesi nell’arco di un anno. Il sindacato del lavoratori ricorre per via giudiziale contro i datori di lavoro, per chiedergli il risarcimento dei danni subiti dalle due donne, che sarebbero state, in occasione dei licenziamenti, discriminate in quanto handicappate. La direttiva UE n. 78/2000 stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, lottando contro le discriminazioni, anche contro quelle fondate sugli handicap. La norma prevede la nozione di «discriminazione indiretta», che si ha quando «una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio» persone portatrici di un particolare handicap. L’art. 5 della direttiva prevede che il datore di lavoro debba adottare soluzioni ragionevoli, prendendo «provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili». Ma qual l’estensione della nozione di «handicap»? E quali accorgimenti deve prendere il datore? I datori di lavoro negano che le condizioni di salute delle ricorrenti nel procedimento principale siano riconducibili alla nozione di «handicap», poichè l’unica incapacità che le stesse presentano consiste nel non essere in grado di svolgere un lavoro a tempo pieno. Essi contestano altresì che la riduzione dell’orario di lavoro rientri nel novero dei provvedimenti di cui all’articolo 5 di detta direttiva. Infine, i datori di lavoro affermano che, in caso di assenza per malattia in conseguenza di un handicap, il licenziamento di un lavoratore disabile in applicazione della normativa danese non configura una discriminazione e, quindi, non è contrario alla suddetta direttiva. Rispetto a tali questioni, il giudice danese presenta alcune questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia UE. I giudici europei rilevano anzitutto, vista anche la Convenzione ONU recepita dall’UE, che la nozione di «handicap» comprende anche malattie curabili o incurabili che comportino una limitazione di lunga durata alla piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Sono disabili quelle persone che «presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di uguaglianza con gli altri». Rispetto alle soluzione che il datore di lavoro deve apportare per evitare discriminazioni, la Corte specifica che possano essere anche organizzative, oltre che materiali. Pertanto anche la riduzione dell’orario di lavoro può configurare uno dei provvedimenti di adattamento contemplati da tale articolo, ove tale misura consenta al lavoratore di poter continuare a svolgere il suo lavoro, conformemente alla finalità perseguita dall’art. 5 della direttiva. Spetta al giudice nazionale valutare se, nelle circostanze dei procedimenti principali, la riduzione dell’orario di lavoro quale provvedimento di adattamento rappresenti un onere sproporzionato per il datore di lavoro.
La circostanza che un datore di lavoro abbia omesso di adottare i predetti provvedimenti, alla luce dell’obbligo che discende dall’art. 5 della direttiva n. 78/2000, può comportare che le assenze di un lavoratore disabile siano imputabili ad una carenza da parte del datore di lavoro e non all’handicap del lavoratore, con la conseguente discriminazione. Può infine ritenersi possibile che la norma danese che prevede la riduzione dei tempi di preavviso del licenziamento dei lavoratori assenti per malattia per oltre 120 giorni, abbia, per quanto riguarda i datori di lavoro, un effetto di incentivazione nell’assunzione e nel mantenimento dell’occupazione. Per cui, in generale, c’è discriminazione, salvo nel caso in cui detta disposizione, da un lato, persegua un obiettivo legittimo e, dall’altro, non vada al di là di quanto necessario per conseguire tale obiettivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio valutare.
Fonte: www.dirittoegiustizia.it – 19 agosto 2013