di Pierluigi Battista. Anche stavolta non si taglia. Anche stavolta le promesse di una riduzione, leggera o consistente, del carico dell’Irpef resteranno parole vuote. La maledizione dell’Irpef fa sentire ancora una volta i suoi effetti. Poi certo, c’è il cuneo fiscale, ci sono in tutti questi anni le tasse sulla prima casa, i simboli dell’Ici o dell’Imu, gli incentivi, le sforbiciatine dell’Irap, lo sfoltimento delle detrazioni, le accise di qua e le accise di là, e l’Iva, ma l’Irpef è la madre di tutte le tasse, l’emblema del peso fiscale che lo Stato esercita sulle «persone fisiche», come appunto dice l’acronimo. Le persone fisiche, cioè il cuore incandescente della tassazione, il filo delicato che lega la cittadinanza allo Stato che fa sentire le persone fisiche in credito o in debito, su cui aleggia lo spettro dell’oppressione, la tentazione dell’elusione. L’Irpef è la nervatura della questione fiscale. Tagliarla è l’imperativo di chi considera le tasse non una cosa bella, come esortava a definirle Tomaso Padoa Schioppa, ma un obbligo da osservare. Nell’epoca del berlusconismo la riduzione delle tasse e dell’Irpef è stato il miraggio mai raggiunto. Renzi ne volle ereditare il messaggio. Ma anche per lui risultato zero. L’Irpef, anche stavolta, non si tocca. Non si taglia. Niente forbici. E neanche forbicine.
Una sconfitta, l’ennesima sul fronte anti-tasse. I conti pubblici sono più forti di ogni promessa. Berlusconi era partito di slancio con il suo proclama «meno tasse per tutti». E tale fu la sua febbre tagliatrice delle tasse che si arrischiò a indicare il tetto oltre il quale il prelievo fiscale si sarebbe configurato come un’estorsione sulla ricchezza e quindi sulla libertà dei singoli: il trentatre per cento, un terzo dei redditi, non un punto in percentuale in più. Lo slancio si afflosciò ben presto e la colpa venne data agli alleati riottosi. Ma poi nel 2011 Berlusconi ebbe cinque anni per potare il frondoso albero dell’Irpef, ma il taglio non arrivò e l’albero crebbe sempre di più. Per Berlusconi, di fronte al suo popolo che aveva creduto al motto «meno tasse per tutti» e meno risorse sprecate e ingoiate dal Moloch statalista e dirigista, arrivò il momento delle spiegazioni che non spiegavano: la «ricetta liberale» si sarebbe realizzata solo se le condizioni economiche e delle finanze pubbliche lo avessero permesso, eccetera eccetera. Ma le condizioni non cambiavano, E neanche l’Irpef cambiava. Cambiava solo la fiducia che l’Irpef sarebbe stata tagliata: la fiducia diventava sempre più sfiducia, rassegnazione, disillusione. E se il consenso a Berlusconi non tracollò repentinamente fu solo perché gli avversari della sinistra mostravano tutta intera la loro faccia statalista, tassatrice, poco fiduciosa nei singoli e nelle persone. E molti elettori dicevano: abbiam capito, Berlusconi non diminuirà le tasse, ma almeno non le aumenterà come farebbero gli altri. E l’Irpef rimase intatta.
Poi è arrivato Renzi a cercare di convincere gli italiani che «abbassare le tasse è di sinistra». Tesi affascinante ma che il popolo della sinistra, quella reale, non sembra accogliere con entusiasmo. Comunque l’insistenza renziana sull’Irpef da tagliare aveva un valore simbolico enorme: l’Irpef sforbiciata vale sul piano dell’immagine molti di più dei cunei fiscali smussati o dell’Imu risparmiata sulla prima casa. Doveva essere la volta buona, ma per l’Irpef da cambiare la data non è ancora arrivata. Renzi se la può sempre prendere con Paolo Gentiloni e dire, senza farsi sentire dai ministri Lotti e Boschi, che questo non è il suo governo. Ma non ci crederebbe nessuno. Così come nessuno crederà alle nuove promesse del Berlusconi redivivo di tagliare l’Irpef (addirittura la flat tax è stata riesumata) appena il centrodestra dovesse tornare a Palazzo Chigi. L’Irpef è come i gatti che hanno sette vite. Ogni volta sembra che la sua integrità sia messa in discussione. Ma ogni volta la previsione fallisce. L’Irpef è più forte di Berlusconi e Renzi messi assieme.
Il Corriere della Sera – 14 aprile 2017