«Per il pubblico impiego la riforma dell’articolo 18 non vale, perché c’è una differenza sostanziale rispetto al privato, rappresentata dal tipo di datore di lavoro: il datore privato ragiona con risorse sue, quello pubblico ragiona con risorse della collettività. Nel Testo unico sul pubblico impiego chiariremo anche questo aspetto in modo esplicito». Il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia interviene direttamente nel dibattito riaperto dalla Cassazione, che nella sentenza 24157/2015 (su cui si veda l’articolo di ieri) si è pronunciata per l’estensione automatica dell’articolo 18 agli uffici pubblici perché prevista dal testo unico attuale (articolo 51 del Dlgs 165/2011). E la discussione ritorna negli stessi termini che l’aveva animata anche all’interno del Governo ai tempi dei decreti attuativi del Jobs Act quando, come ricorda il sottosegretario all’Economia Enrico Zanetti, «qualcuno tentò di inserire un comma per escludere esplicitamente dalle nuove regole i dipendenti pubblici, ma il comma fu tolto.
In questo quadro, chi sostiene ancora l’inapplicabilità della riforma commette un grave errore tecnico, e secondo noi anche un errore politico perché il Jobs Act serve proprio a cancellare la vecchia separazione fra chi era tutelato troppo e chi lo era troppo poco». Simile è l’impostazione seguita da Pietro Ichino, il giuslavorista e senatore del Pd che sul tema propone da tempo l’abbattimento dei confini fra pubblico e privato: «Le riforme dell’articolo 18 – spiega – si applicano anche al pubblico impiego perché una norma speciale di esclusione non c’è. Certo, il governo può sempre ripensarci, anche se non se ne vede la ragione dal momento che le tutele crescenti sarebbero la soluzione ideale per la stabilizzazione dei molti precari che hanno maturato anni di servizio nelle Pa. In ogni caso non può farlo nei decreti attuativi della riforma della Pa, perché la delega non ha una riga sulla disciplina del recesso. Quello che va fatto, e che la delega consente, è definire le opportune procedure interne del licenziamento disciplinare e di quello per motivo oggettivo, che ne assicurino la dovuta ponderazione imparziale, ma al tempo stesso lo rendano effettivamente praticabile».
Anche di questo aspetto parla la Cassazione che, in linea con la Corte d’appello di Palermo, ha ritenuto nullo il licenziamento perché tutta la procedura è stata portata avanti da un solo componente dell’ufficio per i procedimenti disciplinari, che è invece un organo collegiale. Per i giudici di legittimità, in pratica, l’applicazione delle riforme dell’articolo 18 (la sentenza discute della prima riforma, quella introdotta con la legge Fornero del 2012, perché riguarda un licenziamento di tre anni fa) «è innegabile» per «l’inequivocabile tenore dell’articolo 51 del Dlgs 165/2001», cioè del Testo unico del pubblico impiego in base al quale lo Statuto dei lavoratori con le «successive modifiche e integrazioni si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti». Ma questa estensione, che per la Cassazione avviene «a prescindere dalle iniziative normative di armonizzazione», cioè senza che lo debba prevedere una regola esplicita, deve ovviamente fare i conti con le regole del procedimento disciplinare, la cui violazione può cancellare il licenziamento a prescindere dall’articolo 18.
Proprio su questo punto chiedono di intervenire gli stessi fautori della “riforma per tutti”. «Bisogna prendere atto della sentenza – sostiene Zanetti – smettendo di cercare di difendere l’indifendibile, e introdurre le norme procedurali necessarie per dare operatività concreta al principio con regole che garantiscano un ufficio disciplinare davvero terzo rispetto al dirigente che chiede il licenziamento e al dipendente che lo subisce».
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 2 dicembre 2015