Un dirigente scolastico viene condannato per abuso d’ufficio e tentata concussione in seguito a una vicenda ricca d’acredine riguardante il rapporto con due docenti. In sede di legittimità non emerge alcun dubbio circa il secondo addebito; mentre l’obbligo di astensione (gravante sul preside in ragione del suo carattere di pubblico ufficiale) sussiste solo quando l’inimicizia sia determinata per ragioni personali estranee all’esercizio della funzione, non invece quando le tensioni attengono alla sola sfera professionale. Questa la vicenda valutata dalla Cassazione nella sentenza 34280/12.
Il preside gioca sporco? Un dirigente scolastico di un istituto veneto era accusato di abuso d’ufficio per aver omesso di astenersi (in presenza di un interesse personale, determinato dalla pendenza di una causa di lavoro per mobbing e per un procedimento penale avviati da una dipendente), contestando alla collaboratrice l’infrazione disciplinare del temporaneo allontanamento dal servizio. Il medesimo preside era accusato pure di tentata concussione: galeotto il fatto di aver indotto un’altra docente a sottoscrivere una finta dichiarazione secondo la quale la collega si era allontanata dalla scuola simulando motivi di salute fantomatici.
Permane ancora la natura di pubblico ufficiale? Sì, stando all’avviso della Corte di Appello di Venezia. Anche successivamente alla riforma e alla privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, non sarebbe mutata la natura della funzione condotta dai dirigenti scolastici; e, con essa, la qualifica – ex art. 357 c.p. – di pubblico ufficiale. La Cassazione, adita dall’imputato, si attesta sulla medesima interpretazione, ma ritiene fondato un altro motivo di doglianza.
Obbligo di astensione: quando sussiste. Nulla quaestio, dunque, in riferimento alla qualifica di pubblico ufficiale attribuibile al preside. Tuttavia, nel ritenere sussistente nel caso di specie l’obbligo di astensione in capo al soggetto, la Corte territoriale non si è attenuta agli approdi della giurisprudenza amministrativa sul punto. Il suddetto obbligo sorge soltanto quando l’inimicizia sia determinata «da motivi di interesse personale», estranei all’esercizio della funzione e non anche per ragioni inerenti al servizio. Perciò non può costituire «elemento sintomatico di una situazione di grave inimicizia nei confronti dell’incolpato la proposizione di denunce da parte del dipendente sottoposto a procedimento disciplinare».
Punto rimasto irrisolto. In sede di merito la motivazione si è rilevata carente, tralasciando di appurare l’ipotetica inimicizia personale tra le parti in causa. Inoltre la sentenza del giudice del lavoro ha respinto la domanda giudiziale tesa ad accertare il presunto mobbing.
Resta intatto, infine, l’addebito della concussione: la richiesta di nuova valutazione delle prove, avanzata dal ricorrente, non è come noto esperibile in sede di legittimità. La sentenza trova dunque annullamento parziale limitatamente all’abuso di ufficio.
ilsole24ore.com – 23 ottobre 2012