Il giudice può stabilire, per l’amministratore unico di una società, un compenso inferiore a quello stabilito – come tetto massimo – dallo statuto per gli impiegati.
Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza 21145/12, precisando che, nel caso, lo statuto prevedeva un tetto massimo e non una precisa predeterminazione del compenso dovuto. La vicenda: il Tribunale condanna una società di autolinee a pagare una somma di 51.332,25 euro quale compenso per l’attività svolta dall’amministratore unico della società. Ma non è abbastanza. Per una (presunta) errata interpretazione dello statuto anche da parte dei giudici di merito, infatti, l’ex amministratore si rivolge alla Corte di Cassazione. La parte dello statuto viziata, secondo il ricorrente, è quella in cui era previsto a favore dell’amministratore unico un trattamento economico non superiore a quello di impiegato di prima categoria con maneggio denaro previsto dal CCNL per le aziende esercenti autolinee in concessione. Pertanto – sostiene il ricorrente – «visto il chiaro tenore letterale della norma», non potevano i giudici del merito ricorrere ad ulteriori criteri interpretativi in via sussidiaria e complementare, quali il riferimento ad una retribuzione oraria proporzionata a quantità e qualità della prestazione resa durante l’esercizio del mandato. In sostanza, il ricorrente lamenta la mancata applicazione del solo canone del criterio letterale che, prevedendo una remunerazione quantitativamente predeterminata, non lascerebbe spazio all’intervento del giudice. Tuttavia, nel caso, i giudici del merito hanno interpretato correttamente il riferimento al trattamento economico dell’impiegato di prima con maneggio denaro, che «costituisce soltanto il tetto massimo oltre il quale non deve collocarsi il compenso dell’amministratore unico e non già una precisa predeterminazione del compenso dovuto». Perciò vengono rigettati tutti i motivi del ricorso, con la conseguente condanna della parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità.
Fonte: www.dirittoegiustizia.it – 11 febbraio 2013