Cologna. Acqua, è allarme «Pfas» in un pozzo che pesca in falda. La concentrazione di sostanze è sette volte superiore ai limiti consentiti dal ministero dell’Ambiente
Inquietante vicenda legata alla contaminazione delle acque di falda da Pfas. Questa volta si tratta di un pozzo a Cologna di cui ufficialmente nessuno conosce l’esistenza ma le cui acque, fatte analizzare dal proprietario, hanno un livello di inquinamento elevatissimo. Il contenuto di Pfas, infatti, è di quasi 7 volte oltre il limite massimo di riferimento secondo l’Istituto superiore di Sanità e validato dal ministero dell’Ambiente. Limite che, pur non valendo a livello nazionale, è purtroppo segnale di una terra «intossicata».
Il pozzo in questione è quindi totalmente fuori norma. I Pfoa, uno dei Pfas ritenuti potenzialmente più pericolosi per la salute, sono tre volte sopra i parametri: ce ne sono più di 1500 nanogrammi per litro rispetto ai 500 massimi previsti. Questo è uno dei composti che fanno parte della famiglia delle sostanze perfluoro-alchiliche che la ditta che viene ritenuta dalla Regione come la principale fonte dell’inquinamento, la Miteni di Trissino, afferma di non produrre più dal 2011. Nelle acque del pozzo, però, sono stati trovati anche altri sei Pfas, la cui somma è di quasi 3350 nanogrammi, rispetto ai 500 massimi possibili. Tutti e sei sono a catena corta di carbonio – come quelli che produce ora la Miteni – e quindi hanno una vita minore dei primi. Che il pozzo peschi da una falda inquinata è, dunque, indubbio. A creare perplessità è la sua natura.
Si tratta, infatti, di un impianto che è a pochi metri di profondità, una decina, e non molto distante dallo scolo Ronego che nasce a Spessa di Cologna ed è alimentato dalle acque che scendono da Lonigo, nel Vicentino. «Il Ronego», spiega il direttore del Consorzio di bonifica Alta pianura veneta Gianfranco Battistello, «ha sempre avuto una portata molto esigua. Anni fa abbiamo addirittura deciso, pur di renderlo utile per l’irrigazione, di realizzare una condotta con un impianto di sollevamento al fine di pompare a monte acqua pulita che arriva dall’Adige, tramite il Leb». Battistello, quindi, esclude che la grave contaminazione del pozzo sia dovuta ad una dispersione del Ronego. «Quello che posso dire», conclude, «è che lì c’è una falda fatta in modo molto particolare e complesso, il che rende a mio avviso impossibile dire con certezza da dove arrivano i Pfas in quel punto». A rendere ancora più intricata la questione è il fatto che questo pozzo è uno dei tanti, probabilmente la maggioranza, che non sono censiti. Negli anni scorsi la Regione avviò una mappatura dei pozzi per verificare quale sia l’effettivo utilizzo d’acqua. L’iniziativa ebbe un effetto limitato ed ora scegliere di denunciare l’esistenza di un pozzo, che va fatta al Genio Civile, significa rischiare una multa, che può essere di poche centinaia come di decine di migliaia di euro, e, addirittura, di dover rispondere, nel peggiore dei casi, del reato penale di furto d’acqua. Una situazione che è nota da tempo ma che sino ad ora non è stata oggetto di provvedimenti particolari. Anche se in Regione spiegano che per quanto riguarda i pozzi a servizio delle aziende agricole ci sarà un incontro con le categorie produttive. Tenuto conto di tutte queste situazioni, non è affatto casuale che amministratori ed ambientalisti concordino nel chiedere che vengano presi provvedimenti perché emerga l’esistenza di pozzi clandesini. Il primo a chiedere che la Regione studi soluzioni ad hoc è stato l’ex sindaco di Cologna Silvano Seghetto. L’attuale, il leghista Manuel Scalzotto, ha detto di aver parlato recentemente in Regione di questa situazione: «Stanno cercando le risorse per sostenere questa operazione», spiega. «E necessaria una moratoria», dice il portavoce del comitato Acqua libera dai Pfas Piergiorgio Boscagin.
L’Arena – 22 luglio 2016