Il Corriere del Veneto. La data è il 21 ottobre 2020. Fu quel giorno che partì il siluro diretto ai vertici della Sanità veneta. A lanciarlo, il laboratorio di microbiologia e virologia dell’Università di Padova diretto dal professor Andrea Crisanti, che con una lettera comunicò alla Regione Veneto i risultati di uno studio sul test rapido antigenico condotto insieme al reparto malattie infettive e al pronto soccorso dell’ospedale di Padova. I dati erano sconfortanti: bastava sovrapporre i risultati dei «rapidi» con quelli di un tradizionale tampone molecolare eseguito sugli stessi pazienti, per scoprire che quel nuovo kit non era affatto affidabile come sosteneva il produttore.
Il laboratorio scoprì che, su sessantuno pazienti positivi al Covid 19, ben diciotto erano sfuggiti ai test antigenici, evidenziando quindi «una sensibilità di circa il 70 per cento, inferiore a quella dichiarata» dall’azienda farmaceutica.
In pratica, stando a Crisanti, con il test rapido tre positivi su dieci risultavano dei falsi negativi – i più pericolosi per la creazione di nuovi focolai – rischiando quindi di mettere i pazienti nelle condizioni di contagiare altre persone, diffondendo l’infezione in modo incontrollato.
«Tra i campioni risultati negativi al test antigenico – sottolineò Crisanti – vi sono ben sei casi di pazienti con carica virale molto elevata», quelli che vengono definiti «super-spreaders» o super-diffusori. La ricerca spinse la virologia di Padova «in autotutela a non emettere più referti negativi» basati su quei test.
Poche settimane prime la sperimentazione – spalleggiata dalla Regione – era partita dal laboratorio di microbiologia di Treviso, coordinato all’epoca da Roberto Rigoli, che utilizzò quei «tamponi rapidi» con la collaborazione dell’Istituto Spallanzani di Roma.
«I test rapidi antigenici che si stanno effettuando presso gli scali romani di Fiumicino e Ciampino e presso gli ospedali pubblici e i drive-in del Veneto – si leggeva in una nota del 24 agosto scorso, firmata da Rigoli e dalla dottoressa Maria Rosaria Capobianchi dello Spallanzani – si sono dimostrati efficaci ed efficienti per l’attività di screening. Sono stati effettuati sia in Veneto che nel Lazio migliaia di test di conferma con risultati sostanzialmente sovrapponibili». Tradotto: secondo i responsabili della sperimentazione, i test rapidi funzionavano al 100 per cento.
La divergenza di vedute tra Crisanti e Rigoli culminò con una lettera spedita a novembre dai componenti del Comitato Tecnico Scientifico della Regione al loro coordinatore, il direttore sanitario di Azienda Zero Mario Saia, con la richiesta di utilizzare il «vecchio» molecolare per lo screening del personale sanitario anziché il test rapido antigenico. Insomma, neppure i medici si fidavano dei kit antigenici. E, come disse all’epoca un irritato governatore Luca Zaia, «se alla fine verrà fuori che i rapidi non sono affidabili, e dunque è meglio non utilizzarli per i medici, allora non potranno più essere utilizzati neppure per le altre persone, perché è inaccettabile che ci siano cittadini di serie A a cui si riservano i test “che funzionano”, e cittadini di serie B, a cui si danno invece quelli “che forse non funzionano”».