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    Home»Notizie ed Approfondimenti»Congedo di paternità. A casa due giorni e futuro incerto. Italiani agli ultimi posti in Europa. Nel 2018 ne saranno concessi quattro. Ma per il 2019 non si sa ancora nulla
    Notizie ed Approfondimenti

    Congedo di paternità. A casa due giorni e futuro incerto. Italiani agli ultimi posti in Europa. Nel 2018 ne saranno concessi quattro. Ma per il 2019 non si sa ancora nulla

    Cristina FortunatiInserito da Cristina Fortunati26 Aprile 2017Nessun commento3 Minuti di lettura
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    Nadia Ferrigo. Prima due giorni più due. Quest’anno sono due, il prossimo quattro più uno. Dal 2019? Crescono la voglia di paternità e la consapevolezza che la parità tra uomo e donna è un toccasana per la società e per l’economia. Ma sul congedo di paternità ancora nulla di certo, se non che siamo tra i peggiori in Europa. Gran parte dei Paesi concede ai papà da una a due settimane da trascorrere con i bebè. In Italia il pur già risicato congedo si dimezza: restano i due giorni obbligatori, cioè che spettano solo al papà, se ne vanno invece i due facoltativi, da usare in alternativa a quelli di maternità. Dopo aver fatto un passo indietro, se ne fa mezzo in avanti: dal 2018 saranno quattro obbligatori, più uno facoltativo. Poca cosa se paragonata alle nove settimane dei padri finlandesi, alle tredici degli islandesi, alle cinque dei portoghesi e alle dieci degli sloveni, con i primi venti giorni pagati al cento per cento.

    I vincoli

    Nel 2010 una risoluzione – non vincolante – del Parlamento europeo quantificò la durata del congedo per i padri in almeno due settimane, con due caratteristiche importanti: l’astensione dal lavoro deve essere obbligatoria e retribuita. Sono queste infatti le condizioni necessarie perché la disciplina, orientata a sviluppare il diritto e il dovere alla genitorialità, possa funzionare. Secondo i dati raccolti da un rapporto Unicef del 2008 l’assenza di una delle due condizioni si risolve nell’inutilità della misura.

    Se a pagare è il datore di lavoro e non lo Stato – come capita in Grecia, Belgio, Malta, Lussemburgo e Paesi Bassi – i neo-papà non sono incentivati a restare a casa da lavoro, e i congedi funzionano meglio dove la retribuzione è più alta.

    Ma per scardinare la convinzione che nei primi mesi di vita un bambino ha bisogno solo della mamma, è importante che i giorni di permesso siano prerogativa esclusiva del padre, senza prevedere la possibilità di alternarli al congedo di maternità. Lo dicono con chiarezza i dati raccolti dall’Inps: lo scorso anno i giorni obbligatori sono stati chiesti da oltre 80mila persone, quelli facoltativi da poco più di 8mila. La proporzione resta in tutti gli anni della sperimentazione: nel 2015, 70mila contro 9mila; nel 2014, 67mila contro 8mila.

    I bonus

    Alcuni Stati europei per incentivare l’uso del congedo di paternità hanno introdotto i «daddy’s bonus». La prima fu la Svezia, che nel 1974 garantì uguale accesso a uomini e donne ai congedi parentali pagati. Pochissimi uomini sceglievano di restare a casa, così nel 1995 fu introdotto il «daddy’s month»: un mese non trasferibile alla mamma, raddoppiato nel 2002 e pagato all’80%. Iniziativa replicata in Germania, dove se ciascun genitore prende almeno due mesi di congedo parentale, viene un concesso un mese in più, da condividere a piacere. Il bonus c’è anche in Italia: se il padre prende almeno tre dei sei mesi previsti di congedo parentale, allora c’è un mese in più di bonus.

    Un limite culturale

    Secondo uno studio di Piano C di Milano – il primo coworking italiano aperto anche ai bambini – presentato alla Camera, soprattutto tra papà più giovani cresce il desiderio di cura dei più piccoli. «Restano i pregiudizi, soprattutto sul lavoro – spiega Federico Ghiglione, pedagogista che da 7 anni tiene corsi e incontri dedicati ai papà -. Tanti temono non sia virile buttarsi in questa avventura, ancor di più se la misura è facoltativa. C’è anche una resistenza da parte delle mamme, convinte sia innaturale e rischioso allontanarsi dai bambini nei primi mesi di vita».

    La Stampa – 26 aprile 2017

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