La Stampa. Venerdì 5 maggio l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato terminata l’emergenza sanitaria legata a COVID-19. Questo annuncio, ampiamente atteso in base all’andamento dei contagi, ricoveri e decessi nel mondo, rappresenta un importante passaggio verso la normalità ed avviene a più di tre anni dal momento in cui la stessa OMS aveva, in data 30 gennaio 2020, dichiarato lo stato di pandemia. Questa decisione riveste una straordinaria importanza in termini di sanità pubblica, anche se probabilmente non influenzerà più di tanto le abitudini dei singoli cittadini, che hanno ormai ripreso, come da tempo è avvenuto in Italia, una vita pressoché normale. L’OMS ha però ribadito, nell’annunciare la fine della pandemia, la necessità che i singoli stati mantengano alta la guardia nei confronti di COVID-19, dal momento che si potrebbero verificare (e certamente si verificheranno) occasionali riprese della malattia in specifiche aree geografiche, legate alla comparsa di nuove varianti. Quest’ultimo aspetto andrà attentamente monitorato attraverso specifici alert che prevedano il sequenziamento del virus. Inoltre, come aveva in precedenti occasioni ricordato sempre l’OMS, andranno protetti i fragili, per età e patologie sottostanti, con una vaccinazione, probabilmente su base annua come avviene per l’influenza, somministrando vaccini aggiornati sulla base delle varianti circolanti in quel momento. Il termine dell’emergenza pandemica consente una serie di considerazioni in relazione a quanto appreso (a caro prezzo) nel corso di questi tre anni. La principale lezione, come più volte ricordato in contesti internazionali, è rappresentata dalla necessità di essere preparati per affrontare future nuove emergenze, attraverso misure che assicurino prevenzione e cura per tutti, unitamente all’inderogabile dovere a promuovere la ricerca scientifica, che si è dimostrata essenziale per il superamento della pandemia.
Covid derubricato
Con la sua decisione l’OMS ha, per così dire, derubricato COVID-19 da emergenza globale ad una malattia come un’altra e di questo si dovrà da oggi tener conto non solo per quanto attiene la sua gestione ma, più in generale, per gli aspetti di comunicazione ed informazione all’opinione pubblica. Per questo motivo, preso atto della decisione dell’OMS, questo report, dopo un anno e otto mesi e 79 selezioni critiche termina oggi la sua pubblicazione. L’intento è stato quello di fornire periodicamente, sia agli addetti ai lavori che al grande pubblico, una selezione di articoli scientifici che erano apparsi nel corso della settimana, ciascuno correlato da un breve commento. Un grazie quindi a tutti i lettori del quotidiano La Stampa, che con pazienza hanno avuto la bontà di leggere questi report che spero possano essere stati di una qualche utilità. Desidero altresì ringraziare il direttore Massimo Giannini per l’ospitalità che mi ha concesso, in questa prestigiosa testata, per tutto questo periodo, al capo redattore web Paolo Festuccia ed al capo servizio esteri Giacomo Galeazzi, che mi sono stati particolarmente vicini in questo mio impegno. Uno studio osservazionale di tipo prospettico (Alejandro Jara e altri) condotto in circa 2 milioni di bambini ed adolescenti di età compresa tra 6 e 16 anni, ha stimato l’efficacia di un vaccino a virus inattivato (CoronaVac) nella prevenzione dell’infezione sintomatica da SARS-CoV-2, dell’ospedalizzazione e del ricovero in terapia intensiva associata a COVID-19. L’efficacia del vaccino a virus inattivato in questa fascia di età è stata del 74.5% in termini di insorgenza di COVID-19 sintomatico, del 91% e del 93,8%, rispettivamente per la prevenzione dell’ospedalizzazione e del ricovero in terapia intensiva. I risultati ottenuti indicano che l’immunizzazione primaria con vaccino inattivato fornisce ai bambini di età tra 6 e 16 anni una valida protezione nel prevenire la malattia grave.
Efficacia
L’efficacia del vaccino a mRNA Pfizer, somministrato in due dosi, è stata valutata nei confronti delle varianti Delta e Omicron di SARS-CoV-2 in adolescenti di età compresa tra 12 e 17 anni (Iulia G Ionescu e altri). In questa popolazione due dosi di vaccino hanno conferito una protezione efficace e duratura nei confronti di Delta, ma minore e più breve nei confronti di Omicron. Inoltre, la scelta di effettuare un intervallo più lungo di tempo tra la prima, la seconda e la terza dose ha determinato solo un marginale miglioramento della protezione nei confronti di Omicron. Una revisione sistematica ed una meta-analisi (Ali Rafati e altri) ha verificato l’incidenza della paralisi di Bell, cioè la paralisi idiopatica del nervo facciale, dopo vaccinazione anti SARS-CoV-2. Dai 17 studi che sono stati selezionati per effettuare l’analisi, è risultata una maggiore incidenza di questa forma morbosa tra il gruppo dei soggetti vaccinati, rispetto a quelli che ricevevano solo il placebo. Inoltre, non sussisteva alcuna differenza significativa tra chi era vaccinato con il vaccino a mRNA (Pfizer), rispetto al vaccino a DNA con vettore adenovirale (AstraZeneca). Va comunque rimarcato che a fronte di questa maggiore incidenza della paralisi di Bell nei vaccinati, l’infezione da SARS-CoV-2 costituiva comunque un rischio maggiore di sviluppo della paralisi di Bell rispetto alla vaccinazione.
Sorveglianza
La necessità di una continua sorveglianza delle sotto varianti eventualmente emergenti di Omicron, viene sottolineata in uno studio (Julia N. Faraone e altri) che ha valutato l’entità dell’immuno-evasione nei confronti degli anticorpi neutralizzanti da parte delle sotto varianti di Omicron emergenti. In particolare, si è dimostrata una marcata immuno-evasione verso il ricombinante XBB, sia in individui vaccinati con tre dosi di vaccino a mRNA che in quelli convalescenti da un’infezione naturale. Gli esiti clinici, conseguenti al trattamento della malattia COVID-19 con nirmatrelvir (paxlovid) e molnupinavir, è stato oggetto di uno studio di coorte retrospettivo (Bosco Hon-Ming Ma e altri) condotto in soggetti che vivevano nelle residenze sanitarie assistite. Da questo studio è emerso che l’uso di antivirali orali si associa ad un ridotto rischio di ospedalizzazione e di progressione della malattia e per questo motivo, si potrebbe estrapolare che l’impiego di questi farmaci può essere parimenti utile nei pazienti anziani, fragili che vivono in comunità. L’esistenza di un danno ossidativo al DNA causato da un metabolita del molnupinavir (N4-idrossicitidina) è stato oggetto di una ricerca (Hatasu Kobayashi e altri) che ha evidenziato come questo danno possa esitare in un teorico meccanismo mutageno, il che sottolinea la necessità di una certa attenzione, almeno secondo questo studio preliminare, nell’uso di questo farmaco in corso di malattie virali, incluso COVID-19.
Parametri clinici
L’associazione tra la quantità di RNA virale nel plasma (“tempesta virale”), la risposta dell’ospite, le complicanze ed i decessi di pazienti critici con COVID-19, è stato oggetto di uno studio di coorte multicentrico prospettico condotto in Spagna (Jesús F Bermejo-Martin e altri). Sono stati in particolare analizzati diversi parametri clinici di oltre 1000 pazienti che hanno evidenziato come la presenza della c.d. “tempesta virale” si associa ad un aumento del rischio di morte per tutte le cause, nei pazienti ricoverati in terapia intensiva per COVID-19. Per questa ragione, si può ipotizzare che prevenire la “tempesta virale” potrebbe aiutare a migliorare la prognosi e questo obiettivo si potrebbe raggiungere attraverso il trattamento con antivirali o con la purificazione del sangue per rimuovere da questo i componenti virali. L’uso di anticorpi monoclonali neutralizzanti è stato oggetto di uno studio (Nalini Ambrose e altri) che ha valutato la sicurezza e l’efficacia di quattro anticorpi monoclonali: bamlanivimab, bamlanivimab-etesevimab, casirivimab-imdevimab e sotrovimab. La ricerca ha riguardato oltre 160.000 pazienti nei quali si è dimostrato che il trattamento con questi anticorpi monoclonali non solo era sicuro, ma si associava ad una riduzione della necessità di visite mediche, del rischio di ospedalizzazione e dell’evento morte. Tuttavia in corso di prevalenza Omicron BA.1, il trattamento con monoclonali sovra riportati non si è associato ad un ridotto rischio di ospedalizzazioni. I risultati di questa ampia ricerca sottolineano l’importanza di identificare opportune strategie per selezionare i pazienti candidati al trattamento con anticorpi monoclonali. I cani addestrati a riconoscere attraverso l’olfatto le malattie, rappresentano, in corso di COVID-19, una strategia ancillare allo screening rapido, non invasiva ed a basso costo, da attuarsi in un ampio gruppo di persone. Questo approccio è stato condotto in alcune scuole della California, per integrare un programma di screening volto all’identificazione di SARS-CoV-2 (Carol A. Glaser e altri).
Screening
L’obiettivo era quello di effettuare uno screening su larga scala e di riservare il test antigenico solo alle persone risultate positive allo screening dei cani, riducendo così dell’85% l’esecuzione di questi test. Da questa ricerca è emersa l’utilità dell’uso dei cani per lo screening, anche se sono necessari ancora ulteriori passaggi prima dell’utilizzo di questo approccio su larga scala. Il cambiamento della mortalità correlata a COVID-19 in diversi sotto gruppi demografici e clinici inglesi dal 2020 al 2022, è stato oggetto di uno studio di coorte retrospettivo (Linda Nab e altri) che ha utilizzato la piattaforma OpenSAFELY. Sono stati considerati più di 18 milioni di soggetti adulti nella prima ondata, circa 19 milioni nella seconda ondata, quasi 19 milioni nella terza, più di 19 milioni nella quarta e quinta ondata. Da questa ricerca, condotta su una così vasta casistica, è emersa la sostanziale diminuzione dei tassi di mortalità correlata a COVID-19 nel corso di questi anni, anche se i profili di rischio relativi alla natura demografica e clinica permangono ed anzi peggiorano, per le persone con una copertura vaccinale, o assente o non completa ed anche in chi ha una risposta immunitaria compromessa.
Prevenzione
Questa importante ricerca è stata oggetto, nello stesso numero della rivista, di un commento (Mark W Tenforde, Ruth Link-Gelles) che ha sottolineato la necessità di implementare una specifica politica di sanità pubblica nel Regno Unito (ma anche in altri paesi), volta a promuovere la vaccinazione, quale strumento di prevenzione per i sottogruppi di popolazione più vulnerabili. È noto che l’obesità sia un fattore di rischio per lo sviluppo di una forma grave di COVID-19. In questo studio (G. Craig Wood e altri) gli esiti di COVID-19 sono stati messi a confronto in un gruppo di 287 pazienti che avevano avuto un precedente intervento di chirurgia metabolica ed una coorte di 861 pazienti non operati. Dai risultati ottenuti è emerso che la chirurgia metabolica riduce il rischio di infezione grave da COVID-19, mentre un’età più avanzata ed un aumento della massa corporea (BMI), sono i principali fattori di rischio per la gravità dell’infezione. Tra il marzo 2020 e l’agosto 2021 sono stati studiati in Spagna 486 pazienti COVID-19 che avevano ricevuto un trattamento precoce con antistaminici a cui, in casi selezionati, veniva aggiunta l’azitromicina (Juan Ignacio Morán Blanco e altri). Il tasso di ospedalizzazione nei pazienti così trattati è stato del 4,3%, il ricovero in terapia intensiva dell’1,1% e la mortalità è stata dello 0,6%. Dai risultati ottenuti sembra emergere che il trattamento precoce con antistaminici dei pazienti positivi a SARS-CoV-2, potrebbe ridurre la gravità di malattia e la probabilità di ospedalizzazione. Saranno comunque necessari ulteriori studi clinici, randomizzati e controllati a maggiore numerosità, per valutare se il trattamento precoce con antistaminici possa veramente rappresentare una strategia terapeutica utile in corso di COVID-19.
Uno studio di natura metodologica è stato condotto in due ospedali dell’Iran nel 2020, per identificare le ragioni dello stress del personale infermieristico che lavora nei reparti COVID-19. Da questa esperienza è emersa l’importanza di effettuare una corretta pianificazione del lavoro attraverso la stesura di protocolli ad hoc, per gestire al meglio lo stress e per aumentare l’efficacia degli infermieri in situazioni critiche e di emergenza (Leila Valizadeh e altri).