La controriforma
Il caos attuale è addebitabile allo scarso dialogo tra Roma e i territori e al ginepraio di poteri tra lo Stato e le Regioni partorito dalla riforma del Titolo V del 2001, con la creazione delle «competenze concorrenti» nelle quali lo spazio d’azione è in condominio tra il Governo e le Regioni. Un quadro complicato in questi ultimi mesi dall’urgenza di aggredire la pandemia, a cui si aggiunge l’insofferenza, talvolta condita da protagonismo, nei confronti delle misure statali da parte di diversi governatori.
Di fondo, però, c’è il nodo della riforma di venti anni fa. Tant’è che anche di recente ha ripreso vigore l’idea di rimetterci mano. A inizio novembre c’è stato anche l’endorsement di Roberto Fico, presidente della Camera e terza carica dello Stato, nonché figura di punta del Movimento 5Stelle. Anche nei partiti della maggioranza se ne è parlato ed è riapparsa la proposta della «clausola di supremazia», che darebbe allo Stato il potere di legiferare anche su materie non di propria competenza, purché l’intervento sia giustificato dall’interesse nazionale o da situazioni particolari. Come potrebbe essere quella che stiamo vivendo. Però l’ipotesi della controriforma del Titolo V così come era riemersa si è inabissata, anche perché travolta dalle tante priorità anti-pandemia.
La conflittualità davanti alla Corte
Il problema, tuttavia, rimane. L’ultimo e recentissimo esempio è quello della legge della Valle d’Aosta sulla quale la Consulta si è pronunciata in via cautelare giovedì scorso, sospendendone gli effetti (si veda la scheda). Quell’impugnativa proposta dal Governo era una delle 105 presentate lo scorso anno davanti ai giudici costituzionali. Un numero non troppo diverso dai ricorsi del 2019 (117) e superiore al contenzioso del periodo 2016-2018, quando si è andati sotto le cento cause. Dunque, il termometro della Corte continua a misurare un’alta conflittualità centro-periferia. Semmai, sarebbe da segnalare il fatto che nel 2020 la contrapposizione si è ulteriormente sbilanciata dalla parte dello Stato: da Roma, infatti, sono partite 95 impugnative contro le 10 presentate delle Regioni. Un dato che per quanto analogo a quello del 2018 – 11 ricorsi regionali a fronte, però, di 76 statali – potrebbe aver bisogno di ulteriori elaborazioni e conferme perché riferito all’anno scorso.
Il giudice amministrativo
Non è solo la Corte ad avere il polso del forte dissidio tra Stato e Regioni. Anzi, in questi ultimi mesi sono stati soprattutto i giudici amministrativi a essere chiamati in causa per dirimere le controversie. Lo stesso caso della Valle d’Aosta aveva avuto, prima che il Governo decidesse di sollevare questione di legittimità costituzionale, un prologo davanti al Tar. È, però, la natura degli atti normativi prodotti in questi mesi che spiega come mai siano stati soprattutto i tribunali amministrativi a dover scendere in campo. I governatori, infatti, hanno il più delle volte parlato attraverso ordinanze e tali provvvedimenti devono essere giudicati dai magistrati amministrativi. Stessa sorte per i Dpcm governativi. La Corte costituzionale, invece, decide sulle leggi.
Benché sia soprattutto il contenzioso davanti alla Consulta che misura la conflittualità innescata dal Titolo V, anche le cause presentate in questi mesi ai Tar danno il segno della contrapposizione tra Stato e Regioni. I giudici amministrativi sono, infatti, dovuti intervenire per sbrogliare – sarebbe più corretto dire per sospendere, perché finora si è trattato soprattutto di decisioni cautelari – questioni di compentenze concorrenti: scuola e sanità in primo luogo. Temi che si ritrovano anche nei ricorsi presentati dai privati cittadini (per esempio, comitati di genitori), come è stato per le pronunce dei Tar di Emilia Romagna, Lombardia e Puglia dei giorni scorsi sul rientro a scuola. Anche questi segnali del caos che regna sotto il Titolo V.
Salute, il 62% degli italiani non vuole lotte tra istituzioni
Nonostante ci siano differenze talvolta anche marcate in funzione della provenienza geografica e delle preferenze politiche dei rispondenti, dall’indagine di Noto Sondaggi effettuata la scorsa settimana su un campione rappresentativo della popolazione italiana adulta emerge in modo netto la contrarietà al fatto che le Regioni possano decidere autonomamente se chiudere o meno le scuole per affrontare l’emergenza.
I cittadini assistono da mesi a rimpalli di responsabilità tra Governo e Regioni con polemiche anche spesso aspre e a volte risolte da Palazzo Chigi con ricorsi d’urgenza al Tar contro le decisioni prese a livello locale. Ma ben pochi di loro conoscono le leggi che regolano la convivenza tra Stato centrale e autonomie. Solo il 14% degli italiani, infatti, sa che il Titolo V della Costituzione attribuisce competenza esclusiva allo Stato sulle decisioni per i livelli essenziali di assistenza, mentre la tutela della salute è competenza concorrente. E quando non c’è accordo a decidere sono i giudici costituzionali o quelli amministrativi.
Negli ultimi mesi però la gestione dell’emergenza, prevista da appositi decreti prorogati più volte, è diventata di fatto, attraverso i Dpcm, un’esclusiva dello Stato. Ma entriamo nel dettaglio delle risposte.
Il peso dell’identità politica
Il 48% dei cittadini ritiene che le Regioni non siano istituzioni vicine ai cittadini e ai loro bisogni reali, con picchi al Centro, al Sud e tra gli elettori di Fratelli D’Italia. Al contrario, frutto probabilmente di lunghe battaglie sul federalismo e della valutazione lusinghiera sugli ultimi governatori, il giudizio più che positivo sulle Regioni (70%) arriva solo dai residenti nel Nord Est della penisola, in particolare in Veneto ed Emilia Romagna. In relazione all’appartenenza politica, in chi considera le Regioni vicine ai cittadini, prevale l’elettorato di Forza Italia con il 63%, seguito da quello Pd con il 49%, Lega con il 47% e M5Stelle con il 42 per cento. Invece per i votanti Fratelli d’Italia la percentuale scende al 25 per cento.
La maggioranza degli italiani (62%) non è d’accordo che su determinate materie, come la sanità, anche se con poteri diversi, possano intervenire sia lo Stato che le Regioni. Nello specifico il 50% è convinto che durante l’attuale emergenza le regole sanitarie le debbano dettare Stato e Regioni di comune accordo e, quindi, non in contrapposizione tra loro come spesso sta avvenendo. Un ulteriore 34% ritiene che debba essere solo lo Stato a scegliere come intervenire, mentre appena il 10% attribuirebbe l’intera responsabilità unicamente alle Regioni. Il 54% degli italiani (72% tra gli elettori del M5S) pensa che le decisioni dei Governatori siano state prese per esigenze di consenso politico. Il 30% le ritiene, invece, iniziative per correggere ritardi o risposte inadeguate del Governo: di nuovo, nel Nord-Est si arriva al 40 per cento.
Due questioni cruciali
Per quanto riguarda le responsabilità degli attuali problemi della sanità italiana, il 40% le attribuisce all’eccezionalità dell’epidemia, il 33% allo Stato e il 21% alle Regioni. L’orientamento politico di chi risponde fa la differenza. Per gli elettori che si rispecchiano nell’attuale maggioranza la colpa è soprattutto delle circostanze eccezionali, mentre per gli elettori dei partiti d’opposizione le responsabilità sono prevalentemente del Governo.
Infine, le riaperture delle scuole: secondo il 52% non è giusto che a decidere siano le Regioni da sole.
Evidentemente quando i temi sono la salute e la scuola gli italiani sono sempre più convinti che occorra un’unica cabina di regia e uno spirito di collaborazione tra i vari livelli di governo che non si è visto in questi mesi.