Crisi, un 2012 da brivido. L’alimentare spera nell’estero
Un 2012 da brivido. Gli italiani, dopo avere eliminato la ciccia delle spese superflue e dei beni voluttuari, iniziano a incidere (drammaticamente) sull’osso dei consumi essenziali.
E l’intera agrindustria italiana rischia di perdere, nel prossimo esercizio, le riserve accumulate negli ultimi quindici anni, che sono stati segnati da una profonda trasformazione e hanno consentito al comparto di ottenere un relativo benessere.
Una agrindustria che, ai vertici operativi delle grandi società, presenta più di una instabilità: basti pensare alla cacciata da Barilla del Ceo Massimo Potenza e ai rumors (smentiti seccamente dalla società) di Umberto Quadrino capo operativo, e non solo consulente, della Ferrero nel post Pietro Ferrero.
Secondo il modello econometrico di Prometeia, per il settore il primo problema riguarda la produzione. Calcolandola a prezzi correnti, si stima che l’anno prossimo possa sperimentare una sostanziale stazionarietà: +0,9 per cento. Il punto di partenza è l’aumento del 10,1 per cento fatto registrare quest’anno. Si tratta di una stasi da non sottovalutare. Soprattutto perché questo indicatore a prezzi correnti già incorpora il caro-commodity. «Dunque – riflette Claudio Colacurcio, economista di Prometeia – se depuriamo la produzione da questo elemento, ecco che essa va a zero».
Un azzeramento che preoccupa. Un azzeramento che si spiega soltanto con il collasso dei consumi interni. Perché, bene o male, l’export sembra reggere. «O almeno così pare – chiosa Denis Pantini, responsabile dell’area agricoltura e industria alimentare di Nomisma – sui mercati stranieri non dovrebbe prevalere il pessimismo. È vero che la grande crisi dei debiti sovrani mette a rischio qualunque equilibrio, però l’anticiclicità di questo settore almeno all’estero dovrebbe continuare a valere».
Il problema è che si è rotto il giocattolino dell’anticiclicità dell’agroalimentare. Perché, a un certo punto, gli italiani si sono ritrovati a stringere così la cinghia (è il caso di dire) da iniziare, all’improvviso, a ridurre le spese. E, ora, si constatano gli effetti sui bilanci delle imprese. «I sociologi hanno osservato questo cambiamento nei comportamenti nel 2008 e nel 2009 – continua Pantini – , mentre dal 2010 si assiste a un loro stazionamento. Che, però, è strutturalmente verso il basso».
Questo fattore non rappresenta l’unica criticità. La probabilità che, l’anno prossimo, la crisi del sistema bancario si traduca in una ulteriore restrizione del credito alle imprese potrebbe mettere a rischio la modernizzazione che il settore ha condotto negli ultimi quindici anni. Una modernizzazione che ha portato, per esempio, all’aumento del livello di patrimonializzazione. Quindici anni fa, nel 1996, il rapporto fra capitale proprio e produzione era pari al 20,6 per cento.
Nel 2001 era salito al 24 per cento. L’anno scorso è arrivato ai massimi (31,4%). Anche se il punto di partenza non era altissimo, si tratta di un trend in ogni caso virtuoso. Secondo il modello econometrico di Prometeia, questo indicatore terrà, rimanendo fra 2012 e 2015 compreso fra quota 30 e quota 31. «La vera incognita di cui nessuno può prevedere gli effetti – spiega però Colacurcio – è una crisi della finanza aziendale determinata dal credit crunch. In quel caso, potremmo assistere alla erosione di una struttura patrimoniale che negli ultimi anni si è in effetti irrobustita.
Ma che, nel confronto con i competitor europei, continua a mostrare una debolezza relativa non irrilevante». Secondo le stime di Prometeia, le nostre imprese hanno una patrimonializzazione inferiore di un 25% rispetto a quelle francesi e di un buon terzo rispetto a quelle spagnole. Per non parlare della differenza, rispetto alle concorrenti tedesche, delle dimensioni e della capitalizzazione netta.
Un aspetto positivo, però, c’è. La sostanziale tenuta della redditività. Se infatti si utilizza il Roi (ritorno sugli investimenti), il 5% ottenuto nel terribile anno 2010 diventa quest’anno il 5,2%, l’anno prossimo dovrebbe salire al 5,3% e nel 2013 dovrebbe ulteriormente crescere, fino al 5,5 per cento. «Anche se – osserva Colacurcio – siamo ancora lontani dai livelli dei primi anni 2000, quando il ritorno sugli investimenti viaggiava costantemente sopra il 7 per cento».
C’è, poi, un’altra incognita. La ricaduta a cascata, di un’onda di crisi, dall’agroalimentare all’agricoltura e ai piccoli trasformatori. «L’agrindustria – osserva Colacurcio – è un settore munito di una buona strutturazione e di una discreta salute di fondo. E che, alla fine, dimostra una discreta capacità di creare reddito». Il problema è se il calo dell’attività e l’assottigliamento della base patrimoniale si tradurranno, l’anno prossimo, in una crisi sistemica in grado di minare alle basi il delicato rapporto fra agricoltura e trasformazione industriale. «Perché l’agrindustria ha l’energia per reggere un incancrenimento della recessione – riflette l’economista di Prometeia – , ma gli artigiani e gli imprenditori agricoli potrebbero andare in poco tempo in affanno».
Ilsole24ore.com – 12 dicembre 2011