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Dalla spesa senza carne agli ipermercati in 70 anni: al bancone è cambiato tutto. La società del risparmio sorpassata dalla società dei consumi e la sfida del web

Settantuno anni oggi. Perché proprio il 29 aprile del 1945, in una Italia sconvolta ed immiserita in cui Mussolini era stato giustiziato appena ventiquattro ore prima, nasceva a Roma Confcommercio, l’organizzazione che raggruppa gli operatori del commercio. E l’anno dopo, con l’adesione delle associazioni dei commercianti del Nord, veniva eletto il suo primo presidente.

Ma non è solo un discorso di rappresentanza degli interessi, come si dice. Perché il commercio, i commercianti per definizione fronteggiano quel grande fenomeno al tempo stesso economico, sociale e culturale che è il consumo. Un «agire sociale dotato di senso», come lo definì Max Weber più di un secolo fa. O, come dice più semplicemente Zygmunt Bauman, «consumo, dunque sono». In effetti dal dopoguerra ad oggi i consumi hanno scandito fedelmente le tappe evolutive della società italiana. Nel bene e nel male.

Nell’immediato dopoguerra i consumi non sono un valore: l’etica (contadina) è ancora quella del risparmio e del sacrificio e poi, comunque, i redditi sono ancora bassissimi. Nel 1951 quasi metà della spesa media delle famiglie andava all’alimentazione, una alimentazione in cui la carne era però una rara prelibatezza.

Questo mondo arcaico e quasi pauperistico comincia a morire già negli anni sessanta, quando gli italiani allargano la cintura e scoprono che l’american way of life – fino a quel momento vista nei film – da sogno sta divenendo realtà. Una realtà pompata dalla televisione – il mitico Carosello nasce nel 1957 – ma che permette all’Italia del miracolo economico di affacciarsi concretamente ai consumi di massa. Dalla carne a tavola (è il consumo alimentare che più cresce negli anni sessanta) agli elettrodomestici, dalle vacanze al mare alle automobili, con il successo incredibile della 600 e della Nuova 500. Ed il commercio si industrializza, nelle cose come nei luoghi di vendita: si diffonde lo scatolame e appaiono i supermercati (il primo nel 1957, a Milano naturalmente; ma l’anno dopo apparirà anche a Padova, il primo in Veneto).

E’ una rivoluzione, una novità destinata a cambiare la vita quotidiana. Un mutamento radicale ed irreversibile degli usi e delle abitudini del consumatore, conservatore e abituato alla piccola bottega, rigorosamente a conduzione familiare. Gli italiani scoprono la «spesa grande» che riempie tutto il frigorifero (magari anche del superfluo), e scoprono anche uno spazio curioso in cui socializzare.

Con gli anni settanta ed ottanta la platea del consumo si allarga. Anche gli operai, con il maggiore potere di acquisto prodotto dalle lotte sindacali, partecipano a pieno titolo a quella che Jean Baudrillard chiamò nel 1970 «società dei consumi». E poi ci sono i giovani, numerosi demograficamente, che contestano il consumismo ma dall’altro innovano radicalmente i consumi come nell’abbigliamento casual e nella musica leggera.

Dagli anni novanta il mondo del commercio si fa più difficile e più complesso, come ben sanno gli operatori.

Per almeno cinque motivi. Il primo riguarda il consumatore, che non è più quello ingenuo e sprovveduto del passato. Come dicono le ricerche, è divenuto più razionale, più esigente, più informato, più critico, più consapevole. Ed anche più infedele e nomade nei consumi. Più saturato dall’invasività della pubblicità, ma anche più connesso. E qui sta il secondo punto, quel web marketing che permette acquisti in rete, comparazioni e controlli, blog sui prodotti e sui servizi turistici, nuove identità dei consumatori e degli utenti. C’è poi – terzo punto – un mercato da ripensare, quello trascinato dall’invecchiamento e che comprende sempre più anziani dai consumi però giovanili: nell’abbigliamento come nei viaggi (una volta si parlava solo di pellegrinaggi), nell’auto come nell’informatica, nell’attività fisica come nella cura di sé.

Il quarto punto riguarda gli spazi fisici del consumo, che vedono in crisi la tradizionale bottega (il commercio di prossimità) in centri storici sempre più svuotati e disabitati (e spesso strangolati da un mercato immobiliare impossibile) ed il successo attrattivo dei grandi centri commerciali (il primo apparve a Bologna nel lontano 1971) che trasformano ed americanizzano le nostre periferie urbane. Solo in Veneto ci sono oggi 36 ipermercati di cui 10 con più di ottomila metri quadrati di vendita, oltre a 84 superstore e 723 supermercati. Ed è sintomatico che gli alimentari quotidiani nel 2007 il 40 per cento delle famiglie venete li acquistava nei negozi tradizionali, oggi siamo sotto il 30. Infine la recente crisi economica, che ha eroso i consumi – il Veneto è divenuto la quarta regione per spesa media, sorpassato dall’Emilia – e ne ha anche accresciuto le disuguaglianze di spesa.

Dato che vendere è decisamente un «lavoro sociale», essere commercianti oggi significa allora stare nella trincea (fuor di metafora: il bancone) ed affrontare quei cambiamenti che la società vive nei consumi e nei servizi. Perché, come è stato detto efficacemente, «siamo in quanto consumiamo».

Il Corriere del Veneto – 29 aprile 2016 

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