Insieme alle tasse sulla casa, le pensioni dominano la scena delle aspettative collegate alla legge di stabilità: come per il cuneo fiscale sui lavoratori dipendenti, però, all’intensità del dibattito politico non sembra corrispondere un equivalente effetto economico sulla vita delle persone.
Vediamo perché. Al centro del dibattito c’è l’«indicizzazione», cioè il meccanismo che adegua la pensione al costo della vita, in base a un indice di rivalutazione (ora è al 9 per mille) che cambia a seconda dell’importo, secondo scale che dipendono da multipli del trattamento minimo (quest’anno 6.440,6 euro lordi all’anno). L’indicizzazione, per le pensioni fino a 19.321,8 euro annui (1.486,3 euro mensili; tre volte il minimo) è stata bloccata da Governo Monti a fine 2011
La legge di stabilità approvata dal Governo ricomincia ad ampliare la platea delle rivalutazioni ma lo stesso premier Enrico Letta ha detto che si può fare di più, riavvicinandosi ai meccanismi in vigore fino alla gelata di fine 2011.
Per chiarire le ipotesi in campo, bisogna mettere a confronto i tre meccanismi. Quello introdotto dal Governo Monti (che ha suscitato il famoso pianto in conferenza stampa dell’allora ministro del Welfare Elsa Fornero) ha limitato la rivalutazione piena ai titolari di pensioni fino al triplo del minimo, azzerando gli aggiornamenti per tutti gli altri. La legge di stabilità reintroduce un meccanismo progressivo, per fasce: rivalutazione piena per le fasce fino a tre volte il minimo, poi decrescente all’aumentare degli importi, fino ad azzerarsi per le quote superiori a sei volte il minimo. Reintrodurre il meccanismo originario, invece, significherebbe dividere le pensioni in tre fasce, rivalutandole tutte sempre in modo progressivo. Per calcolare gli effetti reali di questi sistemi occorre un’altra accortezza: l’aumento della pensione fa crescere l’imponibile Irpef e scendere la detrazione, aumentando quindi il peso dell’imposta sui redditi: i numeri nelle tabelle qui a fianco ne tengono conto.
Quindi? La partita, prima di tutto, riguarda poco meno di tre milioni di persone, cioè quel 19,4% dei pensionati che dichiara un reddito previdenziale superiore a tre volte il minimo. Per gli altri 12 milioni di pensionati, ciascuna delle ipotesi garantisce la stessa rivalutazione “piena”. Anche per chi si attesta sopra il triplo del minimo, però, le cifre in gioco non sono esorbitanti: il grosso degli effetti è già garantito dal meccanismo scritto nel testo approvato dal Governo, che incrociandosi con le dinamiche dell’Irpef può portare fino a 169 euro netti all’anno in più (13 per 13 mensilità) negli assegni di chi ne riceve 28mila lordi. Il ritorno al sistema pre-2011, in pratica, avrebbe due effetti: aumenterebbe il tasso di crescita della fascia di pensione che va da 4 a 5 volte il minimo (cioè da 25.762,4 a 32.203 euro lordi all’anno secondo i livelli attuali), e che sarebbe rivalutata al 90% invece del 75% previsto dalla legge di stabilità, e rivitalizzerebbe un po’ le fascie sopra a sei volte il minimo (38.643,5 euro annui, 2.972,6 euro mensili), che sarebbero rivalutate al 50% anziché essere congelate. Effetto pratico: 8,8 euro al mese per chi ne riceve 60mila.
Il ritorno all’antico avrebbe comunque un costo, 380 milioni nel 2014 e 1,4 miliardi entro il 2017, ancora da coprire: tra le ipotesi c’è quella di abbassare da 150mila a 90mila euro all’anno la soglia del nuovo “contributo di solidarietà”, che ritenta la sfida costituzionale: sfida che, però, attende anche i limiti alla rivalutazione, appena portati in Corte costituzionale dal Tribunale di Palermo.
Il Sole 24 Ore – 18 novembre 2013