Sergio Rizzo. Discutiamo da settimane della possibile esistenza nei conti pubblici di un tesoretto di 1,6 miliardi e scopriamo ora che lo scorso anno il Tesoro ha bruciato con i derivati una somma pari a ben due di quei presunti tesoretti. Tre miliardi e trecento milioni, per l’esattezza. Due tesoretti lo scorso anno, quasi due nel 2013, altri due e mezzo nel 2012, e ancora un paio l’anno precedente.
Più un altro tesoretto e mezzo, ha spiegato Stefania Rimini per Report di Milena Gabanelli, causa rinegoziazioni dei contratti di cui sopra. Il risultato è che in quattro anni abbiamo visto evaporare 15,3 miliardi pubblici. Per capirci, è la somma che il governo Renzi dovrà trovare quest’anno per evitare l’aumento delle tasse contemplato dalle clausole di salvaguardia. Tutti soldi finiti a rimpinguare il conto economico di 17 banche estere e due italiane (Intesa Sanpaolo e Unicredit). Quelle, appunto, con cui il Tesoro ha sottoscritto una decina d’anni fa i contratti di finanza derivata.
Per quale motivo l’ha fatto? Gli esperti spiegano che quei contratti sono come delle polizze assicurative. Servirebbero a coprire parte del debito pubblico dal rischio di aumento dei tassi d’interesse e dal conseguente aggravio della spesa. Come funziona è presto detto. Il Tesoro si impegna a pagare alla banca, di solito una delle grandi major internazionali del ramo, un tasso fisso su un certo ammontare di debito pubblico. Poniamo che sia il 4 per cento annuo. La banca, a sua volta, corrisponde allo Stato italiano un interesse variabile misurato sull’ Euribor. Se quest’ultimo è più alto del tasso fisso, il Tesoro ci guadagna la differenza. Ma se è più basso, ci rimette. Oggi che i tassi sono a zero, ci rimette tutto.
Il caso vuole che quei contratti siano stati stipulati pochi anni prima della crisi finanziaria e del crollo verticale dei tassi. E per un ammontare gigantesco: 160 miliardi. Il che rende evidente come quell’operazione, lungi dall’essere una polizza assicurativa contro un rischio finanziario, sia diventata essa stessa un rischio finanziario incalcolabile.
Spiegano i tecnici ministeriali che quando si è deciso di ricorrere ai derivati il mercato dei tassi era in altalena, più su che giù. Andrebbe però ricordato come fra il 2000 e il 2002 l’ Euribor fosse precipitato dal 5 al 2 per cento. Mentre l’ingresso nell’euro tutto poteva far immaginare tranne l’impennata inarrestabile dei tassi.
Questo fa apparire ancora più avventurose le decisioni prese in quegli anni, che hanno finito per favorire soltanto le banche vanificando parte del risparmio sul servizio del debito garantito dalla moneta unica. Qualche numero? Nel 2011 abbiamo speso per interessi 78 miliardi: cifra identica in termini nominali a quella del 2001, quando c’era ancora la lira e il volume dei titoli di Stato in circolazione era nettamente inferiore.
In termini reali il risparmio è stato di ben 18 miliardi, ridotti però a 15 per quella sconsiderata iniziativa sui derivati. I maligni potrebbero anche malignare a proposito di certi passaggi di alti papaveri del Tesoro ai vertici di certe grandi banche internazionali. Ma c’è da dire che all’inizio degli anni Duemila la febbre dei derivati non contagiava solo via XX settembre, bensì anche le amministrazioni locali. Qualcuno di loro ne è uscito con le ossa rotte.
Già nel 2014 la Procura della Corte dei conti, nella relazione sull’apertura dell’anno giudiziario, aveva sottolineato i pericoli crescenti causati da queste operazioni, facendo presente che il rapporto fra deficit pubblico e pil del 2013 sarebbe stato ben migliore (il 2,8 anziché il 3 per cento) senza un salasso di 3,2 miliardi provocato dai derivati, dei quali 250 milioni a carico dei Comuni. E il 10 febbraio scorso ha rincarato la dose, argomentando che «con crescente frequenza tali contratti sono stati utilizzati non tanto con finalità di copertura, bensì con intenti di tipo speculativo incrementando paradossalmente, in caso di utilizzo distorto, una nuova rilevante fonte di rischio e di conseguente danno erariale». Il problema è che fermare questo bagno di sangue non è affatto facile. Rinegoziare i contratti costa un sacco di soldi: e pagano sempre i contribuenti. A differenza dei responsabili.
Il Corriere della Sera – 27 aprile 2015