Elena Meli, il Corriere della Sera – Dossier Alimentazione. Norme severe e controlli serrati hanno ridotto i casi di contaminazione ambientale e di frode. Però gli esperti avvertono che il rischio-zero ancora non c’è. Ora «sorvegliati speciali» sono i rivestimenti e i contenitori. Verrebbe quasi voglia di digiunare. Perché il cibo sembra poter essere il “veicolo” dei tanti inquinanti che ci circondano: dagli agenti chimici presenti nell’aria, nel suolo e nell’acqua, ai metalli pesanti come mercurio o piombo, fino ai composti nocivi che si formano quando cuciniamo. E gli studi accrescono i timori: solo nelle ultime settimane si sono registrati dati preoccupanti sull’arsenico presente in alcune varietà di riso, sull’alluminio che minaccerebbe la fertilità maschile, sugli ftalati contenuti in alcune plastiche alimentari che favorirebbero l’asma e problemi respiratori se vi si è esposti durante il periodo fetale. Ma allora, quali rischi si corrono davvero e come difendersi?
«Innanzitutto è bene guardarsi dalle numerose notizie-bufala che circolano su questi temi — sottolinea Roberto Fanelli, responsabile del Dipartimento ambiente e salute dell’Istituto Mario Negri di Milano —. Per avere informazioni sicure e sapere quali sono i composti da cui stare alla larga è meglio consultare i siti di enti ufficiali, come l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA)». L’EFSA, con l’Unione europea e i ministeri della Salute dei vari Paesi, si occupa anche della rete di norme e controlli che tutela i consumatori: esistono regole rigorose per ridurre gli inquinanti nei cibi e la filiera alimentare è sottoposta a test secondo Piani nazionali sulla base delle conoscenze man mano più ampie.
I risultati dei monitoraggi sono rassicuranti: in Italia, per esempio, su oltre 38 mila campioni alimentari analizzati nel 2013 nell’ambito del Piano nazionale residui, sono stati riscontrati solo 46 casi di cibi «inquinati».
Ma, come spiega Fanelli: «Vengono scoperti in continuazione inquinanti emergenti, di cui non conoscevamo la tossicità o che non sapevamo ci potessero riguardare. Per di più, esistono rischi cumulativi dall’esposizione a “mix” di sostanze di cui sappiamo poco». «I pericoli aumentano al crescere della “dose” assunta, perciò per tutelarsi è bene non eccedere nel mangiare e soprattutto variare: non consumare troppo spesso uno stesso alimento e non acquistare sempre la stessa marca di un prodotto», aggiunge Fanelli.
Diversificare la dieta è la contromisura migliore per “diluire” la probabilità di contatto con le sostanze tossiche, come conferma Luciano Atzori, segretario dell’Ordine nazionale biologi ed esperto in sicurezza alimentare: «Se ogni tanto scegliamo la carne alla brace, che può essere dannosa per i prodotti della combustione che si formano in cottura, non succede granché; se diventa una consuetudine si rischia di più. Perciò, mangiare un po’ di tutto, limitando magari i prodotti raffinati e lavorati, serve per non esporsi troppo a uno specifico inquinante. Invece, conoscere le soglie-limite per ciascun cibo è meno indispensabile, perché tutto dipende dalla dieta nel suo complesso: inutile chiedersi quanti nitrati dovrebbero essere presenti nelle carni e ridurne l’introito per restare “sotto soglia”, perché poi li troviamo nei salumi, nell’acqua, in alcuni ortaggi. Meglio sapere quali sono le sostanze potenzialmente dannose e, leggendo le etichette dei cibi, cercare di evitarle».
«Il vero problema dei contaminanti nel cibo, che siano presenti a causa dell’inquinamento ambientale o per scelte fraudolente di produttori che usano pesticidi, ormoni o altri medicinali che non rientrano fra quelli ammessi dalla legge, è che i loro effetti si manifestano in un lungo arco di tempo e spesso sono dovuti a “cocktail” di sostanze. È quindi molto complicato “inchiodarli” alle loro responsabilità — interviene Maria Caramelli, direttrice dell’Istituto zooprofilattico sperimentale di Torino —. Bisogna “diversificare il rischio”, con un occhio di riguardo a chi è più fragile: ad esempio, il mercurio che si accumula nei pesci di grandi dimensioni, come tonno o pesce spada, influenza negativamente lo sviluppo cognitivo del bambino e soprattutto del feto, per cui è opportuno non eccedere con questi cibi nell’infanzia e in gravidanza».
«I bimbi sono a rischio perché in rapporto al loro peso assumono più cibo e quindi potenzialmente più contaminanti degli adulti: non a caso nei prodotti destinati all’infanzia i limiti consentiti sono inferiori — conferma il biologo Luciano Atzori —. Analoga prudenza serve con gli anziani, che hanno un metabolismo diverso, fegato e reni che non funzionano più alla perfezione». «Lo stesso vale per chi è “grande consumatore” di una determinata categoria di cibo — osserva Roberto Fanelli —. Le soglie di sicurezza sono molto cautelative, ma se si eccede con le quantità il pericolo derivante da uno specifico contaminante può aumentare».
Ad esempio, una ricerca spagnola ha da poco segnalato che in alcuni derivati del riso si trova parecchio arsenico e ciò, per chi fa ampio uso di questi prodotti (si pensi ai celiaci che devono evitare il glutine), può diventare un problema. Tanto che l’Unione europea è al lavoro per indicare soglie di sicurezza tenendo conto anche di esigenze nutrizionali specifiche.
Una rete a protezione dei consumatori
Per difenderci dai contaminanti negli alimenti possiamo prendere alcune precauzioni in prima persona, ma molto di più viene fatto dalla “rete di protezione” che ci tutela a livello nazionale ed europeo.
«I test sui contaminanti noti vengono eseguiti a ogni livello della catena di produzione dei cibi ed esiste un monitoraggio anche sul prodotto finito che viene messo in commercio — spiega Roberto Fanelli, responsabile del Dipartimento ambiente e salute dell’Istituto Mario Negri di Milano —. Va detto che le grandi aziende hanno gli occhi puntati addosso e sono più controllate dei piccoli o piccolissimi produttori: paradossalmente il “chilometro zero” può essere più “rischioso”, se ad esempio un prodotto provenisse da un’area in cui il terreno o le acque sono inquinate e l’agricoltore o l’allevatore non ne fossero consapevoli».
«In frutta e verdura raccolti in orti urbani spesso si trovano alti livelli di sostanze tossiche — conferma Maria Caramelli, direttrice dell’Istituto zooprofilattico sperimentale di Torino —. Il nostro ambiente non è pulito e inevitabilmente gli alimenti ne risentono: per esempio il pesce siluro, rivalutato come specie a chilometro zero perché presente in molti nostri fiumi, si è rivelato un concentrato di mercurio. Purtroppo non possiamo avere fiducia a priori nel cibo locale».
Dobbiamo averne invece nel Piano nazionale residui che ogni anno viene aggiornato dal ministero e prevede test a campione in tutte le Regioni. Anche se, spiega Maria Caramelli: «Non possiamo controllare ogni singolo pasto. L’obiettivo è individuare i rischi emergenti, per concentrarci dove si verifica qualcosa di sospetto. Non possiamo fare di più per i limiti intrinseci dei test: un esame per la diossina costa mille euro a campione, e serve tempo per avere i risultati. Se potessimo eseguire analisi economiche, rapide e su grandi numeri, la sicurezza alimentare potrebbe essere ancor più tutelata. Per questo, la ricerca sta cercando di migliorare proprio i sistemi di monitoraggio».
Come vengono stabiliti i limiti da non superare per ogni inquinante negli alimenti per uso umano?
« Il valore di tossicità, emerso da test su animali, — risponde Fanelli — viene abbassato di dieci, cento o mille volte per arrivare alla soglia di sicurezza per l’uomo, soglia che è perciò molto prudenziale, anche al fine di sopperire alla mancanza di dati forti sull’effetto cumulativo di sostanze presenti in minime quantità e in varie “combinazioni”».
Un tentativo di capire come bisogna comportarsi con i contaminanti “in tracce” lo sta facendo l’EFSA, che all’inizio dello scorso mese di dicembre si è riunita a Bruxelles con rappresentanti dell’Organizzazione mondiale della sanità per discutere il cosiddetto approccio TTC, da Threshold of Toxicological Concern, la “soglia di preoccupazione tossicologica”.
«Non sempre è possibile produrre dati tossicologici per una singola sostanza rilevata nei cibi — spiega un portavoce dell’EFSA —. I valori TTC sono stati determinati per composti con struttura chimica e probabilità tossicologica simili, sulla base di dati solidi già pubblicati; le strutture chimiche sono state quindi raggruppate in tre categorie, a tossicità bassa, media o elevata. Le sostanze vengono valutate confrontando il valore TTC appropriato (individuato in base alla “somiglianza” con i composti presenti nelle tre diverse categorie, ndr ) con dati attendibili sull’esposizione umana: se questa è inferiore al valore TTC, si considera che la probabilità di effetti avversi sia molto bassa».
«Il metodo TTC — prosegue il portavoce EFSA — è stato sviluppato per valutare il rischio relativo a sostanze presenti nei cibi in piccole quantità e lo si usa per una “perizia” iniziale, per determinare se sia necessaria e prioritaria la valutazione completa dei rischi. Non sostituisce però la determinazione dei rischi per i prodotti regolamentati come pesticidi o come additivi, e non si può usare per diverse categorie di sostanze, fra cui i composti a elevato potere cancerogeno, i metalli, le proteine, gli steroidi».
Analisi. Il Piano nazionale per scoprire i residui fuorilegge
Risalgono a quasi 35 anni fa le prime prese di posizione della Comunità europea sui contaminanti negli alimenti: a quel tempo gli occhi erano puntati sugli ormoni usati negli allevamenti e comparvero i primi divieti all’uso non regolamentato. Poi, a metà anni 80, si fece largo l’idea di Piani nazionali per il controllo delle carni, per uniformare i campionamenti in tutta Europa. Nacque così nel 1988 il Piano nazionale residui, che conteneva indicazioni per misurare la presenza di derivati dell’idrocarburo stilbene, di ormoni tireostatici e sostanze ad azione estrogenica o androgenica. Ogni anno è stato aggiornato sulla base delle nuove conoscenze e oggi è un piano di sorveglianza molto ampio, che scopre l’uso di sostanze vietate e l’abuso di quelle autorizzate. Le Asl di ogni Regione fanni i prelievi, i dieci Istituti zooprofilattici sperimentali eseguono i test. Si analizzano carni bovine e suine, ovini e capre, cavalli, volatili da cortile, conigli, selvaggina allevata e cacciata, latte, uova, miele e acquacolture. Ogni anno crescono i contaminanti da cercare: ad esempio, rispetto al 2013 oggi vengono analizzate anche le cefalosporine nel latte e sono stati inseriti nuovi coloranti da valutare nelle acquacolture.
I Moca, sorvegliati speciali sospettati di contatti pericolosi
Si chiamano Moca, ”materiali e oggetti a contatto con gli alimenti”. Secondo molti esperti sono gli attuali “sorvegliati speciali”. «Dei circa 3.500 casi di “allerta” che arrivano ogni anno al sistema Rasff (il Sistema europeo di allerta rapido per alimenti e mangimi, ndr ), quelli che si riferiscono ai Moca sono in continuo aumento — dice Maria Caramelli, direttrice dell’Istituto zooprofilattico sperimentale di Torino —. Succede perché molte plastiche e contenitori per alimenti arrivano dalla Cina e spesso si tratta di prodotti a basso costo di dubbia qualità. È certo che i materiali a contatto con i cibi, dalla bottiglia di plastica alla pellicola per il microonde, “cedano” sostanze agli alimenti, però ancora non sappiamo con precisione che cosa passa, quanto e in quali condizioni d’uso». Nell’incertezza, non a caso, i limiti di ammissibilità per questi contaminanti sono al momento molto prudenti.
L’elenco dei composti che possiamo ritrovarci nel piatto per colpa del “contatto” è lungo: il bisfenolo A di alcune plastiche per contenitori e stoviglie (pericoloso ma, stando alle ultime valutazioni dell’Efsa, non siamo esposti a quantità tali da essere dannose, vedi tabella ), gli ftalati nel Pvc delle bottiglie, il teflon delle padelle antiaderenti, l’alluminio per avvolgere i cibi. «Meglio, ad esempio, non usarlo a contatto con cibi proteici o grassi, come carne e pesce, perché la cessione di alluminio è facilitata — dice Luciano Atzori, biologo esperto di sicurezza alimentare —. E le scoperte sono continue: uno studio svedese ha da poco dimostrato che molti frullatori a immersione rilasciano paraffine clorurate; si sa invece da tempo che non si devono usare detersivi a base di varechina in lavastoviglie, perché i residui restano sui piatti e da lì vanno nel cibo».
Il Corriere della Sera – 8 febbraio 2015