È autonomo, cammina per la stanza, collabora con i medici. È sereno: «Sono fiducioso, guarirò. L’ho promesso alla famiglia», dice agli uomini in tuta integrale, maschera e cappello, che lo assistono 24 ore su 24 con turni di 8 ore. Ieri mattina, dopo un volo di 6 ore a bordo di un Boeing dell’Areonautica, il medico di Emergency contagiato da Ebola durante una missione in Sierra Leone è stato ricoverato all’ospedale Spallanzani. Isolato dal resto del mondo. Nel suo «bunker» ha potuto portare con sé il cellulare, un tablet e un pc. Quando uscirà di lì, guarito come tutti si augurano, verranno distrutti.
Ieri ha avuto di nuovo la febbre, il sintomo-sentinella che mentre era in Africa, a contatto con i malati di Ebola, gli ha permesso di autodiagnosticarsi precocemente. Condizione fondamentale per aumentare le possibilità di debellare il virus emorragico, responsabile di oltre 5.400 morti. Viene curato con farmaci sperimentali, gli stessi adoperati in Spagna e Stati Uniti in simili occasioni. Si tratta dello Zmapp, cocktail di anticorpi ricavato dai topi e poi modificati per uso umano. E di plasma di persone guarite dalla stessa malattia. L’istituto romano, centro nazionale delle malattie infettive, ha avuto l’autorizzazioni da Comitato etico interno, agenzia del farmaco Aifa e ministero della Salute. In più, medicinali comuni, a cominciare degli antipiretici, per abbassare la temperatura.
Il piano terapeutico, che comunque potrà essere modificato, non è stato reso noto. Le condizioni del primo malato di Ebola italiano sono definite stabili. Il bollettino medico è stato letto e commentato dagli infettivologi Nicola Petrosillo e Emanuele Nicastri e da Giuseppe Ippolito e Valerio Fabio Alberti, rispettivamente direttore scientifico e commissario straordinario dell’azienda. C’era anche Cecilia Strada, presidente di Emergency.
Le informazioni sono molto stringate, come è giusto che sia. L’Italia, considerata al top per tradizione infettivologica, si sta giocando la reputazione. L’obiettivo, oltre alla guarigione, è prevenire casi di contagio a operatori sanitari, una trentina fra infermieri e medici. Lo Spallanzani è il centro di eccellenza. In 24 ore hanno preparato la zona rossa, con operatori dedicati, esonerati dalla routine in altri reparti. Se avvertiranno sintomi sospetti dovranno restare a casa e avvertire. (Margherita De Bac – Il Corriere della Sera)
“Io sto bene, ma ditemi dei miei pazienti”. Il medico contagiato dal virus Ebola curato con cinque farmaci sperimentali, è in condizioni stabili
Nella sua stanza in isolamento dello Spallanzani scherza: “Mal di schiena per il lungo viaggio” La sorella: “Ha una grande forza dentro, non so perché è andato laggiù”
«Allora, voi come state? E i miei pazienti? Come stanno oggi?». Lui ha 39 di febbre, sulle spalle un viaggio di 6 ore dalla Sierra Leone su un Boeing dell’Aeronautica passato disteso su una barella, dentro una “bolla” ad alto bio-contenimento, ma il primo pensiero è per parenti e amici rimasti in Sicilia. Prende il telefono, nella stanza al primo piano dello Spallanzani di Roma, reparto “postacuzie”, e digita il numero di Luigi Guarneri, il “suo” primario, infettivologo all’Umberto I di Enna e uno dei migliori amici: «Quando ho visto il suo nome sul display del cellulare ho pensato a uno scherzo», racconta Guarneri. «Ma tu, invece, come stai?», gli chiede dopo un attimo di smarrimento. «Io bene — risponde il medico di Emergency, “paziente zero” di Ebola in Italia — certo, mi fa male un po’ la schiena. Sai, dieci ore su quella barella, prima in ambulanza, poi in aereo, non è proprio il massimo. È davvero una posizione scomoda».
Gli amici lo descrivono di buon umore, i medici dello Spallanzani, quelli ammessi alla “zona rossa”, lo definiscono «un uomo di grande equilibrio e competenza ». Nello scarno linguaggio del bollettino diffuso ieri mattina gli aggettivi utilizzati sono «vigile, collaborante, deambulante e autonomo». Non è, fortunatamente, disidratato nonostante la febbre alta misurata all’arrivo in Italia. Durante il viaggio da Freetown a Roma, la temperatura era rimasta nettamente più bassa, sui 36.8. Sbalzi che vanno avanti da domenica 23, da quando, dopo un unico episodio di vomito e diarrea registrato giovedì 20, il termometro ha misurato 38.5.
«Siamo stati allertati tre giorni fa», spiega il direttore scientifico dello Spallanzani, Giuseppe Ippolito. In quel momento sono scattate le procedure per l’accoglienza e la gestione del caso. «Era un dovere morale riportarlo a casa e curarlo qui», aggiunge. Ora verrà sottoposto a un trattamento sperimentale, già utilizzato per Ebola sia negli Usa sia in Spagna. I medici non hanno voluto rivelare il nome del farmaco ma è probabile che nella short list dei 5 medicinali autorizzati dall’Oms quello scelto sia il siero Zmapp, un cocktail di anticorpi ricavati dai topi e poi modificato per essere usato sugli uomini. In ogni caso, la procedura ufficiale ha indicato tra gli antivirali da utilizzare il Favipiravir, Brincidofivir, Toremifine e Interferoni. A disposizione c’è anche una sacca di plasma derivato dal sangue dell’infermiera guarita in Spagna, finora il metodo considerato dall’Oms «più promettente ». A somministrargli le cure sarà una task force a lui interamente dedicata: 30 persone, 15 medici e 15 infermieri che dovrebbero occuparsi anche della parte relativa alle “pulizie”. «Volontari e altamente competenti», assicura Ippolito, «che per il tempo necessario non visiteranno nessun altro paziente».
In Sicilia, intanto, anche grazie alla tecnologia, lo sentono vicinissimo. «È come se non fosse mai partito», dice il primario Guarneri. «In questi tre mesi mi ha raccontato passo passo la sua straordinaria esperienza». Senza mai dimenticare i suoi pazienti di Enna. «Io non so perché è andato così lontano lasciando le sue certezze — dice la sorella del paziente — ma so che si è preparato tanto per aiutare quelle popolazioni così in difficoltà. È sempre stato il suo stile. In questi tre mesi ha salvato molte vite umane. Ora spero solo che guarisca presto ». A fargli compagnia, nella stanza allo Spallanzani, ha trovato un vangelo che un sacerdote dell’ospedale gli ha voluto far recapitare. Insieme al telefonino, anche il libro entrato in contatto col paziente, dovrà essere poi distrutto. (Repubblica )
26 novembre 2014