
Enna. “Ucciso dal superlavoro in ospedale” La Asl dovrà risarcire moglie e figlia. Il radiologo stakanovista morì a 34 anni. “Non diceva mai no, il suo cuore non ha retto”
Pino Ruberto correva sempre da un reparto all’altro. Nell’ospedale della sua Nicosia, arroccata nel cuore della provincia di Enna, non aveva turni. Lavorava giorno e notte, Natale e Capodanno, Ferragosto e ancora un altro Natale. C’era da fare una radiografia a un ragazzo ferito in un incidente, arrivava lui. C’era da capire perché una donna incinta avesse dei dolori lancinanti: «Pino serve un’ecografia urgente ». C’erano da eseguire 30 Tac in un solo pomeriggio: «Ci affidiamo a lei, in tutti gli ospedali della provincia non c’è una sola Tac che funzioni». E Giuseppe Ruberto — il “dottore Pino” come lo chiamavano affettuosamente i suoi pazienti — correva.
Per sette anni, il tecnico radiologo dell’ospedale Carlo Basilotta di Nicosia ha dato anima e corpo alla malandata sanità siciliana. Nel 1998, a 34 anni, è stato stroncato da un infarto mentre si preparava a iniziare l’ennesimo estenuante turno di lavoro. Adesso, la Corte di Cassazione ha condannato l’azienda sanitaria di Enna a risarcire la moglie e la figlia. Perché il “dottore Pino”, un tecnico molto preparato, era anche laureato in Medicina, fu vittima del superlavoro a cui era costretto per i pesanti vuoti d’organico in ospedale. Spiega l’avvocato Giuseppe Agozzino: «La Suprema Corte ribadisce che non è accettabile riversare sui dipendenti tutto l’onere di garantire le prestazioni sanitarie ai pazienti». Un duro atto d’accusa contro la sanità che non funziona. Per il “dottore Pino” era ormai diventata una missione. Di quel reparto, suo padre era stato tra i fondatori, nel dopoguerra. Poi, in squadra, era arrivato anche suo fratello Lino. Erano in quattro i tecnici di radiologia a dividersi il superlavoro. Dal 1991 al 1998, 148.513 esami, una media di 18.564 all’anno. Ma era Giuseppe Ruberto in prima linea. L’ospedale era ormai diventato la sua casa; aveva un solo rimpianto, non riuscire a coccolare abbastanza la figlia Alessia, che aveva due anni quando morì.
«Il suo impegno era sotto gli occhi di tutti », racconta l’avvocato di famiglia, da ragazzi giocavano insieme a tennis.
È davvero la storia esemplare di un dipendente pubblico, nell’Italia dei tanti, troppi assenteisti. Ma l’azienda sanitaria per cui lavorava ha cercato di opporsi in tutti i modi alla battaglia della vedova per cercare di rendere giustizia a un professionista che non si era risparmiato per il suo ospedale. L’Asp di Enna è arrivata a negare il superlavoro, argomentando che il tecnico non si era mai lamentato dei turni a cui veniva sottoposto. La corte d’Appello di Caltanissetta l’aveva accolta, questa tesi al limite del paradosso. Ma adesso la Cassazione annulla e rinvia alla corte d’Appello di Palermo per determinare l’entità del «gusto indennizzo». I giudici ribadiscono il principio che prevede «la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore». Resta una battaglia legale lunga dieci anni.
Adesso, all’ospedale di Nicosia, qualcuno vorrebbe intitolare un reparto a Giuseppe Ruberto. «Ma lui non era tipo da cercare medaglie», dice un amico. «Per lui, persona semplice e di gran cuore, le vere medaglie erano i risultati che otteneva», aggiunge Agozzino. «Dovrebbe essere un esempio per la nostra disastrata sanità siciliana». Ma il superlavoro continua ad essere la norma. E di recente, l’Asp di Enna è stata condannata a risarcire tre chirurghi costretti a fare più turni di reperibilità di quelli previsti dalla legge. Un risarcimento per diverse centinaia di migliaia di euro. Un altro caso che fa discutere.
Repubblica – 18 giugno 2017