L’approfondimento. Una raccomandazione che è piuttosto una retromarcia sul delicato tema dell’indicazione di origine degli alimenti. La Commissione europea, infatti, in due rapporti appena pubblicati frena sull’etichettatura d’origine obbligatoria per quegli alimenti che sono ancora fuori dalla legislazione vigente. Perciò per latte e prodotti caseari, carni di cavallo e coniglio, ma anche per prodotti come pasta, passata di pomodoro, succo d’arancia, zucchero o riso l’esecutivo Ue ritiene sia “preferibile” optare per una scelta volontaria, piuttosto che per un obbligo a livello comunitario. Un parere giudicato “deludente” da molti. E che va contro la volontà dei consumatori italiani, che invece vorrebbero conoscere l’origine della materia prima di tutti gli alimenti, come hanno dimostrato i risultati della consultazione sul web del Mipaaf.
Il 96,5% dei consumatori ritiene necessario che l’origine degli alimenti debba essere scritta in modo chiaro e leggibile nell’etichetta. E c’è anche chi legge in quest’allentamento degli obblighi sulle etichette un primo segnale di ammorbidimento dell’esecutivo Ue in vista del TTIP, il trattato di libero scambio in corso di negoziazione tra Europa e Usa che prevede anche l’abbattimento delle barriere non tariffarie nel commercio di beni alimentari.
Dopo un lungo temporeggiare ad una serie di ritardi, la Commissione europea si è finalmente espressa in merito alla obbligatorietà o meno di porre in essere specifici requisiti armonizzati a livello europeo sull’indicazione del paese di origine o luogo di provenienza. Optando per consentire solo una indicazione volontaria dell’origine e senza nessun obbligo. La Commissione adduce costi troppo elevati rispetto ai benefici su origine per latticini e carni equine e di coniglio. E mancanza di un chiaro interesse dei consumatori per alimenti non trasformati, ingrediente primario e prodotti mono-ingrediente.
In base al regolamento 1169/2011, all’articolo 26, entro il 13 dicembre 2014, la Commissione avrebbe dovuto presentare al Parlamento europeo e al Consiglio relazioni sull’indicazione obbligatoria del paese d’origine o del luogo di provenienza per i tipi di carni diverse dalle carni bovine, ovicaprine, suine e di pollame; per il latte e per il latte usato quale ingrediente di prodotti lattiero-caseari; ma anche per gli alimenti non trasformati; i prodotti a base di un unico ingrediente; gli ingredienti che rappresentano più del 50 % di un alimento.
Dopo una serie di ritardi dovuti anche a difficoltà politiche, la Commissione europea ha appena pubblicato due Relazioni in materia: una sulle carni ancora non coperte (carne equina, di coniglio e selvaggina), e per i prodotti lattiero-caseari. La seconda relazione invece riguarda i prodotti alimentari non trasformati, dei prodotti mono-ingrediente e degli ingredienti che rappresentano più del 50% di un alimento.
Entrambe le Relazioni concludono che i benefici derivanti dall’etichettatura obbligatoria non superano in modo chiaro i costi: in tal senso le norme di etichettatura volontaria sono suggerite come la soluzione più adeguata.
Latticini, carni equine, cunicole e selvaggina
Nella prima Relazione, relativa appunto alle “le carni minori” (in particolare la carne di cavallo, carni di coniglio e di selvaggina e uccelli di allevamento e selvatici) – nonché ai latticini, emergerebbe che i consumatori non sono disposti a pagare di più per le informazioni aggiuntive. E che l’impatto sui produttori dei costi sarebbe diseguale, con aumenti di prezzo fino al 45%. Sul sito della Commissione europea (DG AGRI) sono stati pubblicati soltanto i testi integrali degli studi esterni. La conclusione? “Introducendo un’indicazione di origine obbligatoria limiterebbe la libertà di scelta dei consumatori ad essa non interessati- che sono una parte sostanziale di tutti i consumatori- obbligandoli a pagare per una informazione che non porta loro beneficio”.
Prodotti trasformati, ingredienti primari e prodotti mono-ingrediente
La seconda Relazione esamina la necessità per i consumatori di essere informati sull’origine dei prodotti alimentari non trasformati, dei prodotti mono-ingrediente e degli ingredienti che rappresentano più del 50% di un alimento. La Commissione conclude che l’interesse dei consumatori, pur presente, è inferiore a quello rivolto ad altre categoria di alimenti quali le carni, i prodotti a base di carne o i prodotti lattiero-caseari.
Inoltre, dallo studio emergerebbe che le catene di approvvigionamento delle categorie di alimenti rientranti nel campo d’applicazione della relazione dimostrano che l’origine degli ingredienti viene spesso diversificata al fine di mantenere bassi i prezzi d’acquisto e di preservare la qualità del prodotto finale.
L’attuazione dell’etichettatura d’origine obbligatoria a livello di UE e, ancor più a livello di paese, è pertanto estremamente complessa in molti settori alimentari, il che implica un aumento sostanziale dei costi di produzione che, in ultima istanza, sarebbe a carico dei consumatori.
La Commissione europea conclude pertanto che l’etichettatura d’origine su base facoltativa, associata ai vigenti regimi di etichettatura d’origine obbligatoria per specifici alimenti o categorie di alimenti, sembra essere l’opzione migliore in quanto implica il minor numero di perturbazioni del mercato, mantiene invariati i prezzi di vendita e “consente comunque ai consumatori di scegliere, se lo desiderano, prodotti con origini specifiche senza pregiudicare la competitività degli operatori del settore alimentare e senza incidere sul mercato interno e sugli scambi internazionali”. Ma c’è un ma: nel regolamento 1169 è comunque stabilito- che a seguito di atti di implementazione- se l’ingrediente primario è diverso dall’origine complessiva del cibo, l’origine vada comunque indicata almeno dell’ingrediente primario (quello che supera il 50% dell’alimento).
A livello procedurale, le due relazioni saranno trasmesse al Parlamento europeo e al Consiglio per un dibattito.
Commissione e aspetti contradditori
Quel che interessa è come la Commissione non ricordi come iniziative di legislazione nazionale per introdurre l’obbligo di origine siano possibili, come previsto dall’articolo 39 laddove si precisa come (comma 2) “gli Stati membri possono introdurre disposizioni concernenti l’indicazione obbligatoria del paese d’origine o del luogo di provenienza degli alimenti solo ove esista un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza. Al momento di notificare tali disposizioni alla Commissione, gli Stati membri forniscono elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni. “E rimanda tutto alla sola volontarietà nell’indicare l’origine.
In Italia, il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali aveva introdotto una consultazione pubblica con 26.547 partecipanti: l’89 % dei quali ha ritenuto che la mancanza di etichettatura di origine possa essere ingannevole per i prodotti lattiero caseari, l’87% per le carni trasformate, l’83% per la frutta e verdura trasformata, l’81% per la pasta e il 78% per il latte a lunga conservazione.
“Paese di origine” o “luogo di provenienza”?
Ma lo snodo critico rimane – dalla direttiva 79/112 fino ad oggi- l’incerta definizione non tanto di “Paese di origine”, quanto di “luogo di provenienza” – definizione alternativa. Se infatti in modo pacifico ormai con “paese di origine” si intende il luogo di ultima trasformazione sostanziale, a norma del cosiddetto Codice Doganale Comunitario, è sul “luogo di provenienza” che si concentrano i dubbi. Una categoria residuale, che sembra diversa dal luogo di ultima trasformazione ma che nello stesso tempo non sembra ammettere … né il luogo in cui la materia prima deriva, né il luogo in cui gli animali sono stati allevati!
E la Commissione continua a nicchiare. E ancora oggi nulla si sa circa il “luogo di provenienza”. Con buona pace dei “consumatori informati”.
fonti: Sicurezza Alimentare Coldiretti, Repubblica, Commissione europea – 23 maggio 2015