Stefano Rizzato. Nutrire il pianeta, certo, ma nutrirlo come? Con Big Mac e patatine o con le melanzane dell’orto? Metterla così può sembrare troppo semplice – e lo è – ma in fondo è il succo della polemica che si è scatenata ieri intorno a Expo. O meglio dentro Expo, tra vicini di padiglione. Da una parte Slow Food, dall’altra fast food.
Divisi da pochi metri, per ironia, ma separati da un abisso. Il primo ad attaccare è stato, martedì sera, il fondatore di Slow Food Carlo Petrini: «Quando sento dire che Expo può ospitare tutti, sia noi che McDonald’s, mi viene un’aritmia. Se c’è chi vende un panino con la carne a 1,20 euro, come spieghiamo alla gente il valore di allevare e produrre secondo certi criteri?».
Ideologia e fame
In casa McDonald’s ci hanno pensato un po’, poi ieri pomeriggio è arrivata la replica. Non certo diplomatica: «È filosofia approssimativa condita di retorica terzomondista. L’ideologia non sfamerà il pianeta. Slow Food oggi è una specie di multinazionale: è triste pensare che abbia ancora bisogno di opporsi a McDonald’s per darsi un’identità». Non è una semplice lite di condominio. McDonald’s è uno degli sponsor principali dell’esposizione, al pari di Coca-Cola, e sulla scelta si è discusso molto. Slow Food è l’ospite più critico: dentro Expo vorrebbe i contenuti e i contadini, non un opulento «circo Barnum». «Ci siamo solo perché la sedia vuota non paga», ha spiegato Petrini martedì. E il suo padiglione è fatto di un orto verde e di legno, minimale e sostenibile e bello. Ma su questo McDonald’s dissente: «Serviamo in Expo 6 mila pasti giornalieri di qualità e a un prezzo accessibile, magari a persone che ci scelgono dopo aver visitato l’immenso, triste e poco frequentato padiglione di Slow Food».
Qualità sostenibile
Il valore della produzione controllata e lenta si coglie da sé, è al centro del mito del made in Italy e dei suoi sapori. Al tempo stesso, i fast food hanno camminato sulla strada della qualità e della sostenibilità. In Italia McDonald’s garantisce di usare prodotti per l’80 per cento nostrani. Il pane di Modena e il pollo di Cesena. Il latte di Brescia e l’olio di Cosenza. A fornire la carne è invece l’Inalca di Castelvetro, Modena, parte del gruppo Cremonini. L’ad è Luigi Scordamaglia, presidente di Federalimentare: «Come si fa la carne per un panino che costa un euro e venti? Con economie di scala: ne produciamo tonnellate e in quell’hamburger ce n’è il minimo: 45 grammi. Che i piccoli facciano cose buone e di qualità e le grandi aziende siano brutte e cattive è una falsa idea. Spesso i due mondi collaborano, per far mangiare italiano a 1,2 miliardi di persone».
Slow e salute
È questione di stile e di filosofia, ma poi il cibo è prima di tutto questione di salute. «E la velocità non aiuta in questo campo, al di là di tutto il marketing e dei miglioramenti dei fast food – dice il nutrizionista Giorgio Calabrese – «McDonald’s sta auto-moralizzando i suoi prodotti, ed è un bene. Ma in questa polemica sto con Petrini, perché il cuore del discorso sul nutrire il Pianeta sta nelle materie prime e nel discorso che Slow Food fa sulla biodiversità. Non è retorica, ma un concetto giusto: garantire un prodotto che sia anche sicuro, igienico e sano».
La Stampa – 21 maggio 2015