Il 16 febbraio, con regolamento n. 56/2013, la Commissione europea ha reintrodotto l’utilizzo di farine animali (pollo, maiale) in acquacoltura. Una decisione contestata da alcune parti, che interviene dopo 12 anni di divieti.
Ed è degna di attenzione anche in ottica di sostenibilità della filiera.L’utilizzo di farine animali nei mangimi è stato vietato nel 2001, a seguito della crisi dell’encefalopatia spongiforme bovina (Bse). Nondimeno, a seguito di approfondite analisi dei rischi, la Commissione Ue ha considerato l’opportunità di ammettere l’utilizzo di materie prime per mangimi derivate da animali c.d. «mono-gastrici» – vale a dire, con un unico stomaco – come i maiali e i polli, a partire dall’1 giugno 2013.
La determinazione Ue è stata criticata dal governo britannico. Il DEFRA («Department for Environment, Food and Rural Affairs») insiste per mantenere un approccio rigorosamente prudenziale, applicando il cosiddetto «principio di precauzione» (suggellato nel «General Food Law», reg. Ce 178/2002). Sulla base di un’opinione della «Food Standard Agency» del settembre 2011 nella quale, pur riconoscendosi la sostanziale assenza di rischi, si paventava un potenziale rischio legato all’inefficacia dei controlli pubblici ufficiali sull’effettivo rispetto delle nuove regole.
Quasi preconizzando lo scandalo «horsegate», gli scienziati britannici temevano la difficoltà di controllare quali carni venissero effettivamente utilizzate. Ma anche in questo caso, come in quello del «macinato equino», la questione a ben vedere non risiede nelle regole quanto nella vigilanza sulla loro corretta applicazione. Il tema dei mangimi negli allevamenti ittici ha tuttavia risvolti più ampi. Se da un lato infatti è essenziale garantire elevati standard di sicurezza della filiera alimentare e dei suoi prodotti (priorità di cui nessuno dubita), bisogna d’altra parte considerare le esigenze di sostenibilità delle produzioni alimentari che vedono oggi nell’acquacoltura responsabile una fonte primaria di approvvigionamento di proteine.
E dunque, posto che le risorse ittiche naturali non possono venire sfruttate oltre misura, risulta necessario trovare un compromesso. Abbiamo intervistato al proposito un esperto di acquacoltura e trasformazione dei prodotti ittici, Walter Brisinello.
Dice Brisiniello: «Allo stato attuale servono dai tre ai cinque chili di pesce (pescato in mare e poi ridotto in farina per uso zootecnico) per produrre un chilo di pesce allevato. E già qui viene a scricchiolare l’affermazione di molti, secondo i quali l’acquacoltura viene in aiuto al depauperamento degli oceani a seguito del super-sfruttamento della pesca. Ad essere precisi, il pescato «da farina» riguarda specie non interessanti dal punto di vista del consumo, ma è altresì vero che esso fa parte della «piramide alimentare» marina e quindi costituisce il naturale alimento di altre specie selvagge. Negli ultimi anni, poi, anche la disponibilità di farina di pesce si è ridotta, facendo aumentare il prezzo degli alimenti per il settore ittico in modo clamoroso (con incrementi fino al 30% l’anno), perciò insostenibile».
D. Quali soluzioni alternative?
R. L’industria mangimistica ha risposto alla crescente domanda introducendo nelle formulazioni grandi quantità di proteine vegetali (soprattutto da soja), ma con risultati deludenti. Proprio in virtù di mangimi più costosi e, nel contempo, meno performanti, gli allevatori, da qualche tempo, stanno lavorando con costi di produzione superiori al prezzo di vendita, e diversi impianti di allevamento sono stati chiusi o comunque entrati in crisi.
D. E dunque?
R. Ben venga un aiuto dalle farine di carne che, oltre a costituire un elemento di riduzione dei costi, migliorano – se non si eccede – la qualità del pesce allevato. Senza dimenticare che alcune specie ittiche, come quelle di acqua dolce, in natura si nutrono anche di vermi, girini, inserti, non solo di altri pesci. Non è da trascurare nemmeno il fatto che la farina di carne viene ottenuta da scarti di macellazione e quindi costituirebbe un aiuto nel loro smaltimento (dal punto di vista ambientale, oltre che economico).
D. Ma i rischi?
R. Vale la pena ricordare che la farina di carne è stata usata per parecchi decenni, fino a quando la Bse causò i problemi che sappiamo. Ma sappiamo anche che tali problemi, probabilmente, derivarono da una sottovalutazione del rischio di trasmissione della malattia.
Insomma a quanto pare, come già confermato dalle autorità scientifiche, il reintegro di alcune farine animali in mangimistica non presenta rischi, a condizione che anch’esse – come la generalità di alimenti e mangimi – siano opportunamente trattate. L’unica questione politica da considerare l’etichettatura di animali nutriti con farine di carni suine. Per rispetto alla sensibilità dei consumatori che per dettami religiosi (halal, kasher) si astengono dal consumo, sia pure indiretto, di tali carni.
ItaliaOggi – 28/02/2013