“Frontiere chiuse contro Ebola”. Il Big Data svela che è un’errore. La ricercatrice della Fondazione Isi: si fa il gioco del virus, che si moltiplica in Africa
Gabriele Beccaria. «Vi esorto a riportare l’attenzione dove è necessaria: in Africa. Là intere comunità vengono distrutte dal virus». Craig Spencer è uno specialista di «Medici senza Frontiere». Il suo ricovero a New York aveva riempito i notiziari e ingolfato Internet. Ora che è stato dimesso dal Bellevue Hospital Center e l’onda di paura si è momentaneamente affievolita ha scandito parole solo in apparenza retoriche. È il momento di ribaltare la prospettiva di fronte a Ebola e colpirlo – adesso – nelle comunità dove ha già infettato oltre 10 mila africani, soprattutto in Guinea, Liberia, Sierra Leone e Mali.
È una questione bifronte – medica e umanitaria – se la si osserva con lo sguardo di un camice bianco-filantropo. Ma non solo. È una questione matematica e l’allarme si affronta anche attraverso gli strumenti del Big Data. L’ha spiegato mercoledì scorso Vittoria Colizza al «Better Decisions Forum» di Roma, l’evento organizzato dalla società Iconsulting e dedicato a un tema sempre più «virale» (proprio in stile Ebola): come si generano decisioni che coinvolgono le esistenze di milioni di individui, «elaborando sulla base di gigantesche masse di dati – dice il responsabile innovazione Piergiorgio Grossi – la strategia migliore».
Fisico di formazione, ricercatrice alla Fondazione Isi di Torino e all’Inserm di Parigi (il centro dedicato alla scienza della complessità e l’altro focalizzato sulla salute pubblica), Colizza ha guidato un team internazionale, arrivando a una conclusione secca: «Isolare le aree colpite da Ebola è un rimedio antico ed evoca reminiscenze medievali, ma sul lungo termine è inefficace. Anzi. Rischia di peggiorare la situazione». Contro l’epidemia bisogna ribaltare la prospettiva, appunto. Come invoca Spencer.
Cambiare visione significa mettere da parte le trappole del buon senso e – sottolinea Colizza – adottare le logiche controintuitive della scienza. Come?
«Il dibattito che si è scatenato in Occidente, se e come chiudere le frontiere, cancellando i voli dai Paesi africani e sospendendo i visti, oltre alle quarantene imposte al personale in rientro, è via via cresciuto, ma senza basarsi su dati quantitativi». Che il team, invece, ha trattato in un modello a cui ricorrono gli studiosi della complessità per indagare la propagazione delle epidemie. I numeri sono arrivati dai movimenti di popolazione, concentrati su griglie di 20 km per 20 e proiettati sia sulle rotte aeree (in 3400 aeroporti) sia sugli spostamenti pendolari, in 40 nazioni, con i mezzi più diversi, bici comprese. Studiando i tracciati in un periodo-chiave – lo scorso agosto, quando il panico internazionale montava – la scoperta è stata un’evidenza al di là del «common sense».
«Le restrizioni decise da molti Paesi, in realtà, hanno avuto conseguenze diverse rispetto alle attese». La riduzione dei contagi si è fermata sulla soglia del 60% e in compenso i blocchi sulle reti di comunicazione hanno avuto contraccolpi seri per diverse aree dell’Africa: strangolando il flusso di medicinali e personale specializzato, hanno aggravato la crisi. Ed Ebola si è rafforzato. Mentre l’Onu e l’Oms chiedevano un’inversione di tendenza, i rivoli dell’infezione hanno continuato a scorrere. Solo con maggiore lentezza. «I ritardi, da Paese a Paese, sono stati dell’ordine di poche settimane, fino a un massimo di un mese. Il rischio del primo caso importato, quindi, non può mai essere annullato del tutto».
La ragione – vale la pena enfatizzarlo – è matematica: «Qualsiasi decrescita lineare, come quella dei viaggi, rispetto alla crescita esponenziale dei contagi alla “sorgente”, non riuscirà a capovolgere la situazione».
Conclusione: cambiamo bersaglio – dice Colizza – e indirizziamo le armi anti-epidemia nella cooperazione, coinvolgendo laboratori, aziende farmaceutiche, governi e organizzazioni internazionali. Intanto, però, la crisi peggiora. E la colpa è anche dei «muri» anti-Ebola. Ultimi, in ordine di tempo, quelli alzati da Canada e Australia.
La Stampa – 19 novembre 2014