di Gian Antonio Stella. Siamo condannati all’ergastolo dei commi «36-sexiesdecies» e delle «panie della scepsi»? Pare di sì, a leggere la lettera del ministro della Semplificazione Marianna Madia. Secondo la quale contro i deliri psicopatici del burocratese si può usare solo «una sorta di moral suasion dei ministri nei confronti degli uffici legislativi». Ma come: siamo passati dalla «violenta lotta alla burocrazia» alla soave moral suasion? Auguri.
Era un martello pneumatico, Matteo Renzi. Ringhiava che «il vero capo del governo è la burocrazia». Denunciava l’incubo di «una sabbia mobile che è la burocrazia» dalla quale «o si ha il coraggio di uscire o il Paese è condannato al declino». Definiva quella contro la burocrazia «la madre di tutte le battaglie»…
Ed ecco che pochi mesi dopo, rispondendo al Corriere Economia reo d’aver beccato sulla Gazzetta Ufficiale una leggina che correggeva al volo un’altra pubblicata sullo stesso numero, la «Giovanna d’Arco» scelta per la guerra riconosce — sul Corriere della Sera di ieri — che sì, certo, «servono meno leggi» e «più chiare, scritte meglio, comprensibili da tutti i cittadini» ma tutto ciò che un governo può fare è spiegare ai burocrati che devono sburocratizzarsi…
Campa cavallo… Come scriveva molti decenni fa Max Weber, «ogni burocrazia si adopera per rafforzare la superiorità della sua posizione mantenendo segrete le sue informazioni e le sue intenzioni». Perché mai i nostri alti burocrati, che secondo l’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli sono i più pagati al mondo, dovrebbero aprire l’accesso ai labirinti dei quali solo loro conoscono l’ingresso e l’uscita? Quello è il loro potere: essere incomprensibili.
Lo spiegò tempo fa Pietro Ichino sventolando a Palazzo Madama la legge che i senatori stavano votando: «Questo testo è letteralmente illeggibile (…) Credo che in Aula, in questo momento, non ci sia una sola persona in grado di dirci che cosa voglia dire».
E così, al di là dei proclami, andiamo avanti. Senza un segnale di rottura. Di smarcamento. Di rivolta contro il dominio dei «gabinettisti». Lo prova il decreto che ha convocato gli ultimi esami di maturità: 55 «visto» e «vista» (cinquantacinque!) prima di venire al nocciolo. Lo conferma il decreto sui contributi allo spettacolo dal vivo che chiede ad attori e violinisti, trapezisti e domatori di tigri di risolvere una formula pazzesca di 31 elementi impossibile non solo da risolvere ma perfino da leggere, manco fosse un ideogramma cinese, per chi non abbia dottorati in matematica. Lo ribadiscono i calcoli cervellotici pretesi da certi Comuni per la Tasi: puro disprezzo per i cittadini.
La prova del nove è però il decreto «Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari» della stessa Marianna Madia. Che, semplificando semplificando, firma leccornie come questa: «Art. 21-bis. (Riorganizzazione del ministero dell’Interno). – 1. In conseguenza delle riduzioni previste dall’articolo 2, comma 1, lettere a) e b), del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135, da definire entro il 31 ottobre 2014, il ministero dell’Interno provvede a predisporre, entro il 31 dicembre 2014, il decreto del presidente del Consiglio dei ministri di cui all’articolo 2, comma 7, del decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125, e successive modificazioni…».
Fateci capire: è questa la semplificazione? C’era una legge del 2001 che ordinava ai dipendenti pubblici di usare «un linguaggio chiaro e comprensibile». Macché: avendo «l’interesse a rendere il funzionamento dei loro uffici il più opaco e complicato possibile, in modo da essere i soli a poterli far funzionare» (copyright Alberto Alesina e Francesco Giavazzi) gli azzeccagarbugli han tirato dritto. Ignorando la regola. Finché Filippo Patroni Griffi ha deciso di abolire la legge: tanto, non la rispettava nessuno… Bel modo di governare: nessuno rispetta il rosso? Aboliamo il semaforo!
Ed ecco al Policlinico di Napoli spuntare in un avviso pubblico il termine «elasso» che, abbandonato da secoli, non c’è più nei dizionari. E il Comune di Farini, Piacenza, deliberare che «considerata la situazione descritta nei prolegomena…». E il segretario comunale di Ariano Irpino spedire lettere che si avvitano sulle «panie della scepsi» o frasi tipo «è meridianamente epifanica l’indifferenza contenutistica»…
Ma può un Paese reggere a una crisi così se la società intera, imprese e cittadini, scuola e famiglie affogano in questo pantano? Se il vincolo su un pitosforo a Messina porta via 2.650 giorni cioè il doppio di quelli necessari ai cinesi per fare il ponte di Donghai, 32 chilometri a otto corsie in mezzo al mare?
Il Corriere della Sera – 19 novembre 2014