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Frutti di bosco: l’epidemia “invisibile” che ha colpito 1.300 cittadini non è del tutto superata. Poche informazioni. Ancora prudenza

La fase critica dell’epidemia dei frutti di bosco surgelati contaminati dal virus dell’epatite A si può considerare finita, anche se il focolaio non è stato individuato e “… i frutti contaminati potrebbero essere ancora in circolazione…”. Il quadro delineato dall’Efsa (Autorità per la sicurezza alimentare europea) a distanza di 20 mesi dall’inizio della crisi non è proprio confortante.

L’epidemia ha colpito soprattutto il nostro paese con 1.300 casi accertati su 1.440 totali in tutta Europa (*), anche se i cittadini non se ne sono accorti. La stragrande maggioranza degli italiani ha continuato a mangiare tranquillamente macedonie, crostate alla frutta e altre leccornie senza porsi molti problemi perché Il Ministero della salute non li ha informati a dovere: il primo e unico annuncio destinato ai cittadini, oltre a non essere stato pubblicizzato è arrivato a distanza di un anno dall’inizio dell’epidemia, quando i casi accertati in Italia erano quasi 1.000!

Nel testo si consigliava di cuocere i frutti di bosco, senza alcun riferimento ai dolci industriali consumati in ristoranti e pizzerie. Il Fatto Alimentare ha inviato decine di mail per avere notizie sull’epidemia, ricevendo il più delle volte risposte evasive o inutili. Basti pensare che i dati sull’epidemia all’inizio venivano diffusi una volta al mese, poi si è passati al trimestre e alla fine al semestre.

Le poche notizie diffuse dal Ministero hanno però sortito l’effetto voluto: nascondere la gravità della situazione. L’esito è sin troppo evidente: i giornali ne hanno parlato pochissimo, la gente non ha preso le dovute precauzioni e le aziende hanno continuato a vendere i frutti di bosco (i ritiri di lotti sono stati 15**). Fortunatamente sembra che in Italia non ci siano stati decessi e si spera neppure trapianti di fegato (anche se non sono stati diffusi dati sui ricoveri ospedalieri).

Una maggiore trasparenza sarebbe sicuramente auspicabile. È vero che i dati sulla gravità di un’epidemia possono allarmare i consumatori ma, senza informazione, i cittadini non sono in grado di valutare l’importanza degli eventi. Desta sorpresa il fatto che in Italia, anche se a livello industriale il problema delle possibili contaminazioni dei frutti di bosco sia ben noto almeno dagli anni ’90 – come quello dei virus – non sia stato affrontato preventivamente, con metodi analitici e verifiche adeguate. Sicuramente è stato importante il lavoro condotto dagli Istituti zooprofilattici e dall’Istituto superiore di sanità attraverso i corsi di formazione tenuti nel mese di giugno di quest’anno.

L’epidemia è stata non solo molto vasta, ma anche di grande complessità, tanto che neppure gli esperti tedeschi, con un software avanzato, sono riusciti a stabilire se la responsabilità spettasse al ribes rosso polacco o alle more bulgare. Tra le scelte corrette, c’è stata quella di coinvolgere in una task force i migliori esperti europei, compresi quelli tedeschi con un’esperienza avanzata nella tracciabilità, anche se questa decisione è arrivata forse tardi. Un altro elemento da considerare è che in Bulgaria il sistema di tracciabilità non ha funzionato, mentre in Polonia i risultati sono stati migliori, e questo ha creato grosse difficoltà nella ricerca del focolaio.

Anche certi comportamenti nazionali tesi a difendere interessi di parte e non collettivi hanno penalizzato l’individuazione dell’origine del focolaio. In un mercato unico, le gelosie diplomatiche tra controllori sembrano uno sgarbo inaccettabile verso i consumatori continentali.

Sul piano nazionale, restano i dubbi riguardo la scelta di limitare i richiami ai pochi lotti (15) e  solo dopo l’esito delle analisi. Si tratta di una scelta garantista nei confronti delle imprese, forse forzata dal diritto, ma è prassi comune, quando si ha a che fare con un’epidemia di queste proporzioni, estendere il ritiro ai lotti sospettati sulla base delle indagini epidemiologiche o per condizioni produttive e similarità ingredienti. Nel caso dei virus come quelli dell’epatite A, i limiti dei metodi analitici e di campionamento lo suggerivano in maniera ancora più netta rispetto ad altri casi.

L’ultima nota riguarda l’appello del ministero di fare bollire i frutti di bosco surgelati per 2 minuti prima di consumarli. Si tratta di un appello, sicuramente fondato scientificamente, la cui efficacia è lecitamente dubbia soprattutto se arriva tardi e non viene affiancato ad una corretta campagna di informazione. Visto che l’invito a  cucinare i frutti di bosco per 2 minuti  è ancora valido forse però varrebbe a pena farlo sapere alla gente.

 (*) Quella dei frutti di bosco si può considerare un’epidemia imponente, anche se, nelle proporzioni, non inedita. Basta ricordare gli 11.000 casi tra gli studenti tedeschi nel 2012, dovuti a frutti di bosco con un patogeno, ma meno grave, il Norovirus o l’epidemia di epatite A in Puglia di alcuni anni fa.

(**) I dati aggiornati al 30 ottobre 2013 indicano complessivamente 14 lotti confermati (secondo le nostre fonti 15) e 29 lotti sospetti prodotti da 14 diverse ditte di packaging. Si contano inoltre almeno altri 54 lotti collegati, ovvero che condividono almeno una matrice con i lotti per i quali sia stata confermata in laboratorio la contaminazione da HAV. Secondo i nostri dati  dopo questa data è satato ritirato un altro lotto dal mercato.

Luca Bucchini e Roberto La Pira – Il Fatto alimentare – 16 settembre 2014 

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