di Nicholas Kristof, New York Times. Brantly e Writebol hanno contratto il virus mentre prestavano cure in Liberia. Lì proteggevano noi, oltre che gli africani Perché se non conteniamo un’epidemia alla sua fonte, presto ci troveremo a farlo altrove E i costi economici e umani saranno smisurati
Il 23 luglio il dottor Kent Brantly si è svegliato con la febbre. Si è messo in quarantena da solo, immediatamente, e tre giorni dopo un’analisi ha confermato il suo incubo: aveva contratto il virus dell’ebola.
Brantly, 33 anni, ha spedito un’email a un amico dicendogli di essere «terrorizzato» perché conosceva meglio di chiunque altro gli atroci effetti del virus.
DA parecchie settimane, infatti, curava i malati di ebola in Africa occidentale e li assisteva mentre avevano attacchi di vomito ed emorragie interne e talvolta esterne, ed infine s’indebolivano e morivano.
Alcune persone hanno biasimato Brantly e un’altra missionaria americana infettata dal virus, Nancy Writebol, per essersi esposti al pericolo, arrivando persino a sollevare obiezioni sul loro rientro ad Atlanta per essere curati presso l’Emory University Hospital. Donald Trump, per esempio, ha sostenuto che né Brantly né Writebol avrebbero dovuto essere riportati negli Stati Uniti dati i rischi connessi al loro trasferimento. Trump ha lanciato questo tweet: «Coloro che si recano nelle zone remote del mondo per aiutare il prossimo sono meravigliosi, ma devono subirne le conseguenze!».
Al contrario, questa epidemia di ebola dimostra per quale motivo non abbiamo solo un interesse umanitario nell’affrontare i problemi sanitari globali, ma anche un interesse nazionale. Brantly e Writebol sono leader morali in questo sforzo e sottolineano quanto sia pragmaticamente imperativo debellare i contagi globali al più presto. Meritano dunque la nostra gratitudine e la nostra ammirazione perché in Liberia proteggevano anche noi, oltre che i liberiani.
La mente umana è molto sensibile nei confronti di minacce come quelle di Al Qaeda. Siamo però in genere meno sensibili alle minacce per la salute pubblica, anche nei casi che mietono un maggior numero di vittime. Secondo i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, circa 15mila malati di Aids muoiono tuttora ogni anno negli Stati Uniti. Una cosa è certa: è meglio affrontare una malattia contagiosa alla sua fonte che permettere che si diffonda.
«Se non lottiamo per contenerla lì, dovremo lottare per contenerla da qualche altra parte », osserva Ken Isaacs del Samaritan’s Purse, l’associazione cristiana di volontari per la quale lavora Brantly.
La Banca mondiale si è impegnata a versare 200 milioni di dollari per cercare di tenere sotto controllo l’epidemia di ebola, ma una minima parte di quella cifra sarebbe basta a contenerla molto prima.
Thomas Frieden, direttore dei Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, a questo proposito cita un programma finanziato dagli Stati Uniti in Uganda che mira a formare gli operatori sanitari, così da diagnosticare per tempo e contenere la diffusione del virus dell’ebola. Ha funzionato. Nel 2011 una ragazzina di 12 anni ha contratto il virus ed è morta, ma nessun altro è stato contagiato. Si è trattato di un episodio eccezionalmente raro di contagio da ebola che si è fermato dopo un unico caso.
Un programma simile in Africa occidentale potrebbe aver limitato i costi economici e umani imputabili a questa epidemia. Frieden aggiunge: «Ovunque si presenti, un caso di ebola comporta un rischio dappertutto».
Questo discorso non vale soltanto per il virus dell’ebola, però. Frieden ricorda di aver curato a New York un paziente proveniente dall’India affetto da una forma estremamente grave di tubercolosi resistente ai farmaci, un caso molto complesso per curare il quale si spesero 100mila dollari. In seguito, nel villaggio natio del paziente è stato avviato un programma sanitario che avrebbe potuto risolvere il caso all’origine con appena 10 dollari di spesa.
Gli ospedali newyorchesi sono stati allertati sui casi di ebola, ma la diagnosi della malattia e l’isolamento sono complessi. Lo so perché una volta io stesso sono stato sospettato di aver contratto il virus. Anni fa, quando vivevo in Giappone, feci ritorno a Tokyo dal Congo proprio nel momento in cui vi scoppiò un’epidemia di ebola. Una settimana dopo, in piena notte, mi ritrovai con un gran febbrone. Sembrava mala- ria, così feci qualche indagine per sapere in quale ospedale di Tokyo avrei potuto ricevere le cure adeguate il giorno seguente.
Dopo avermi sentito pronunciare le parole “Congo” e “febbre”, le autorità sanitarie giapponesi mi mandarono immediatamente un’ambulanza, a bordo della quale c’era personale che indossava tute come quelle spaziali, e fui portato di corsa in ospedale. I miei vicini di casa furono presi del tutto alla sprovvista dalla scena.
All’ospedale, però, il medico di guardia del pronto soccorso non sapeva nulla di malattie tropicali. Mi guardò, mi tastò e visitò un po’, fece spallucce e mi disse di tornare a casa. (Il giorno seguente mi fu confermato che si trattava di malaria.) Di conseguenza, non considerate Brantly e Writebol alla stregua di eccentrici irresponsabili che in qualche modo sono andati a cercarsi l’ebola. Considerateli piuttosto leader della linea del fronte nel tentativo di aiutare e proteggere americani e africani nello stesso modo. Talvolta dimentichiamo che gli operatori sanitari possono trovarsi ad affrontare coraggiosamente rischi significativi: di contagio da Hiv, tubercolosi e anche ebola. In verità, lo staff che si sta occupando di Brantly e Writebol ad Atlanta si è offerto volontario e alcuni medici hanno addirittura rinunciato alle loro ferie per farlo.
Bravi loro, sicuramente, e bravi anche agli operatori sanitari in Africa e in America che cercano di fermare il diffondersi della malattia, perché è lì che convergono gli interessi umanitari e nazionali.
«È naturale dispiacersi per Kent Brantly», ha scritto sull’ Indianapolis Star Richard Gunderman, suo ex professore alla facoltà di Medicina. «Mi chiedo però se Kent non capovolgerebbe questo discorso. Probabilmente, sarebbe lui a dispiacersi per alcuni di noi, quanto meno per coloro che scuotono la testa pieni di sconforto all’idea che ci sia qualcuno che si è recato dall’altra parte del mondo a fare ciò che lui ha fatto. Una nave in porto è al sicuro, più che da qualsiasi altra parte, ma non è per questo motivo che è stata costruita». ( Repubblica -New York Times, News Service Traduzione Anna Bissanti)
8 agosto 2014