«Se mi trovassi davanti una polenta ogm e una biologica, non avrei dubbi. Quella biologica potrebbe essere piena di tossine. Tra un dubbio e la certezza, io scelgo l’Ogm». Lo diciamo subito: Franco Nulli è di parte. È un ingegnere che trent’anni fa ha messo la laurea nel cassetto per dedicarsi all’azienda agricola di famiglia, tra Milano e Pavia.
«Ho coltivato un po’ di tutto, seguendo le onde dei contributi e le bizze dei governanti: piselli, fagiolini, pomodori. Adesso riso, soia e mais». Secondo tradizione, ma gli piacerebbe provare le colture ogm. Per questo ha promosso una lettera-appello rivolta alla senatrice a vita Elena Cattaneo e a tutti i parlamentari: 716 firme, tutti imprenditori agricoli, soprattutto lombardi, veneti e friulani, che chiedono che lo Stato riconosca «la libertà di ricerca scientifica e quella di impresa».
In Italia è vietata non solo la coltivazione di piante geneticamente modificate ma anche la sperimentazione. In questi anni il confronto tra favorevoli e contrari è uscito dai binari della pacata discussione e ha assunto i toni della crociata. Con forzature, ricorsi ai giudici e accuse reciproche di difendere interessi delle lobby (le grandi multinazionali da un lato, i produttori di insetticidi dall’altro). «Due anni fa quando distrussero i campi dell’Università della Tuscia mi misi a piangere. Trent’anni di ricerca buttati via, come mettere i libri al rogo…». Anche Deborah Piovan coltiva mais e soia, in provincia di Rovigo, come fa da mezzo secolo la sua famiglia. Anche lei non è spaventata dagli Ogm. Anzi. «In vent’anni non hanno mai provocato un mal di pancia. Dovrebbe essere ormai chiaro a tutti che non sono pericolosi, come dimostrano molti studi».
Chi si oppone alla loro introduzione, soprattutto in Italia, fa leva sul rischio di contaminazione delle colture tradizionali, che sarebbe favorita dalle caratteristiche dei terreni e della nostra agricoltura, fatta di piccoli appezzamenti uno accanto all’altro. «Falso — protesta Deborah Piovan —. Può valere per il polline della colza che viaggia per chilometri, ma non per quello del mais che non va oltre una quindicina di metri, o per quello del frumento che si sposta ancora meno». L’ingegnere Nulli prova a spiegarlo con un esempio: «In Veneto si mangiano la polenta e il mais bianco, i campi sono accanto a quelli con le piante gialle, al massimo c’è una commistione nelle prime file. Perché allora non possono convivere l’agricoltura tradizionale e quella Ogm? Ovviamente trovando i sistemi adeguati, mantenendo una distanza di sicurezza. Ma come facciamo a sapere qual è se non ci danno nemmeno la possibilità di fare ricerca?».
Per i 716 firmatari dell’appello la battaglia è tra passato e progresso, non tra cibo sano e modificato. «Io stessa ho contributo alla redazione del disciplinare del Riso del Delta del Po Igp — rivendica Deborah Piovan —. Conosco bene l’importanza del tipico, il suo valore economico. Ma stiamo parlando di prodotti di nicchia. Perché impedire per un insensato pregiudizio un’attività che potrebbe dare lavoro a tante imprese e a tanti giovani?».
Comunque la pensiate, di sicuro fa riflettere il «paradosso» che ricorda l’ingegnere Nulli. «La coltivazione in Italia è vietata, ma gli Ogm li mangiamo da almeno dieci anni. Le nostre mucche e i nostri maiali sono alimentati con mais modificato e così nascono i prodotti vanto delle nostre tavole, dal parmigiano al prosciutto».
Riccardo Bruno – Corriere della Sera – 11 giugno 2014