Massimo D’Alema, deputato da tempi immemorabili, considera il sindaco di Firenze, che caratterizza il suo programma con la proibizione delle carriere parlamentari a vita, «inadatto» a governare. D’Alema ha spesso ripetuto che l’antiparlamentarismo, la richiesta che l’esperienza politica sia una parentesi in una vita dedita ad altre attività professionali, è un dato che ha accompagnato tutta la vicenda unitaria dello Stato italiano.
In effetti, la teoria delle «élites» elaborata da Gaetano Mosca, poi popolarizzata dal qualunquismo di Guglielmo Giannini o estetizzata nel dannunzianesimo o espressa in forme di delegittimazione dello Stato «legale» opposto a quello «reale» da don Davide Albertario, relegava la funzione parlamentare a un ruolo esplicitamente subalterno all’esercizio del potere da parte di altri soggetti, economici, burocratici giornalistico-letterari o carismatici.
La nascita di un ceto politico professionale, secondo D’Alema, è la conseguenza della presenza sulla scena di partiti rappresentanti di movimenti o organizzazioni di massa, da quello socialista a quello popolare, connessa all’adozione del suffragio universale e quindi di un allargamento in senso democratico della base dello Stato.
L’analisi ha un fondamento storico e logico rispettabile, ma trascura di esaminare la sclerosi progressiva di quei movimenti popolari che tende a cristallizzare un ceto politico professionale che appare, e spesso è, interessato soprattutto ad autoperpetuarsi in quanto tale, indipendentemente dalle radici storiche e sociali su cui era fondata la sua rappresentatività.
Se la rappresentanza popolare viene così spesso surclassata, non solo in Italia, da quella basata sull’immagine carismatica che trova sostegno di massa e consenso elettorale attraverso meccanismi «pubblicitari» e viene poi etichettata dai soliti parrucconi come «populismo», una ragione ci sarà pure. In Italia la crisi dei partiti di massa, che parevano indistruttibili fino al periodo del compromesso storico, si è consumata negli anni successivi all’assassinio di Aldo Moro, quando i partiti non riuscirono ad affrontare la crisi del sistema politico e bloccarono la riforma istituzionale proposta da Bettino Craxi e da Francesco Cossiga.
Una componente del consenso dei maggiori partiti italiani veniva dall’esterno, dall’influenza della Chiesa e dalla polarizzazione del mondo in blocchi contrapposti. Quando secolarizzazione e caduta del muro di Berlino erosero queste basi, il sistema si sfarinò sotto i colpi dell’offensiva giudiziaria. Forse un ceto politico ci vuole, ma non può essere costituito ereditariamente dai protagonisti di quel fallimento.
ItaliaOggi – 5 settembre 2012