I dati sono eloquenti. In almeno tre delle maggiori province (Roma, Milano e Torino) l’apertura di ristoranti e bar va a ritmo sostenuto. Nei primi nove mesi del 2014 a Torino ne sono stati inaugurati 576, a Milano 679 e a Roma 687. Si viaggia grosso modo alla velocità di due al giorno e sono le città ad attirare i due terzi delle aperture lasciando il resto all’hinterland.
È vero che il saldo complessivamente è negativo perché si chiudono più ristoranti e bar di quanti se ne aprano ma le porti girevoli della Grande Crisi stanno portando con sé un ampio ricambio generazionale. Molti commercianti passano la mano e spessissimo i figli non vogliono seguire le orme del padre mentre altri coetanei, anche senza avere esperienze simili in famiglia, scelgono proprio questa strada. Secondo le stime della Fipe-Confcommercio il 40% dei neoimprenditori ha meno di 35 anni e se proiettiamo il dato dal campione a tutto il territorio nazionale si può dire che 5.500 giovani hanno aperto nel periodo gennaio-settembre 2014 un bar, un bistrot, un ristorante o un take away. Se questo è il trend che si ricava dai dati disponibili e dall’osservazione quotidiana, l’interrogativo riguarda il tasso di sopravvivenza di queste nuove attività. Le associazioni non hanno dati certi, sanno che nel giro di due anni chiude il 27% dei nuovi esercizi e che questa percentuale sta salendo — a vista d’occhio — nel caso degli under 35.
Secondo il professor Luca Pellegrini, docente allo Iulm di Milano e presidente di Tradelab, «la ristorazione attira i giovani perché è più creativa del commercio ma il turnover è velocissimo». L’autoimpiego è una via che spesso si rivela un vicolo cieco. È chiaro che un giovane in cerca di occupazione e votatosi al lavoro autonomo si rivolge più facilmente alla ristorazione perché pensa che esistano meno barriere all’ingresso, all’insegna del «tutti sappiamo far da mangiare». Commenta Luciano Sbraga, direttore ufficio studi Fipe: «Quello che sta avvenendo ricorda le tute blu che negli Anni 80 si improvvisavano imprenditori. Ma oltre alla volontà per sfondare serve un’idea originale e un pensiero coerente, quello che gli addetti ai lavori chiamano concept. Basta un errore e si può compromettere il lavoro di mesi». I più frequenti riguardano la scelta del format commerciale e la sottovalutazione del peso dei costi fissi (tasse e personale). Che condizionano anche chi ha successo, come Antonio, proprietario di una trattoria pugliese nel Nord di Milano che ha raccontato al blog Nuvola del lavoro: «Ho dovuto ridurre i coperti per non assumere altro personale, la tassazione ci spinge a non crescere».
Ma dove prendono i soldi gli under 35 per aprire un nuovo esercizio? L’investimento per un bar di 80 metri quadri, al netto dell’affitto molto variabile a secondo della zona, è all’incirca di 56 mila euro: 35 mila se ne vanno per la ristrutturazione, 15 per le attrezzature, 3 per il magazzino e 3 per i costi burocratici. Per un ristorante si stima che ci vogliano 800 euro a metro quadro. Per le start up sono previsti qua e là incentivi nei programmi operativi regionali mentre nel Sud Invitalia aiuta l’autoimprenditorialità. Ovviamente perché intervengano fondi di private equity si deve trattare di catene di una certa taglia come Rossopomodoro o Ca’ puccino. Le banche si tengono prudentemente alla larga e così gli under 35 ricorrono quasi sempre al finanziamento da parte dei genitori o dei nonni.
Il costo dell’apertura dipende molto dal modello di business scelto. Un take away ha una struttura leggera mentre il tradizionale ristorante italiano è più dispendioso. Servono camerieri per il servizio al tavolo, una cucina con un menù ampio e locali per l’approvvigionamento e lo stoccaggio delle materie prime. Un cameriere prende una paga attorno ai 1.200 euro alla quale vanno aggiunti i costi della Tari, la tassa sui rifiuti che è cresciuta del 300%. Si rivolgono in grande quantità alla ristorazione anche gli stranieri ma hanno il vantaggio competitivo di usare quasi sempre manodopera familiare e di accontentarsi di una remunerazione più bassa. Spiega Sbraga: «I giovani italiani non vogliono fare i camerieri ma sono attratti dalla ristorazione come attività imprenditoriale. Spesso sottovalutano le competenze manageriali necessarie ad avviare un’attività di successo. Per non parlare di quelle professionali e dei costi che si devono sostenere per ingaggiare personale qualificato. Un buon chef e un buon pizzaiolo non si trovano con facilità e possono arrivare anche a stipendi di 4 mila euro».
Nel mondo dei bar il business si presenta più semplice se si adotta il modello multiproposta ovvero colazione al mattino, tavola calda all’ora del pranzo e aperitivo verso le 19. Gli addetti ai lavori segnalano come vadano meglio di altri i bar-pasticceria con caffetteria e produzione artigianale. Altro segmento segnalato positivamente è il bar per happy hour e aperitivo che però è un format molto legato alle mode. Non mancano, infine, esperimenti sotto il segno della fantasia e così spuntano punti ristorazione a forte identità come i locali di polenta alla spina o di solo prosciutto, idee che se si giovano della location giusta possono anche funzionare.
Sentenzia Pellegrini: «La fantasia però non basta. Per ridurre il tasso di rotazione ci vuole un supporto organizzato. Finanziario, fiscale e di marketing. Si devono minimizzare gli errori che possono portare all’uscita dal mercato. Oggi non è così».
Il Corriere della Sera – 2 febbraio 2015