C’è il lavoro tra le priorità del governo e le preoccupazioni del capo dello Stato nella crisi dell’eurozona Napolitano ritiene fondamentale la strategia europea di qui al 2020 per la crescita.
Monti sta preparando un vero e proprio piano per l’occupazione, un job plan che presenterà al Consiglio Europeo del 30 gennaio. Van Rompuy, che presiederà quel vertice, lo concepisce come fosse una statua della Giustizia, «in una mano il consolidamento del debito, e nell’altra la crescita e il lavoro». Inevitabilmente, per quel che riguarda l’Italia, viste le stime sulla recessione. Gira una bozza «con alcune idee», narra una fonte governativa, ma quelle poche idee, illustrate al presidente del Consiglio Europeo, hanno fatto virare non poco al positivo il clima dell’incontro dell’altroieri, e sono state anche molto apprezzate da Napolitano. Van Rompuy l’ha detto anche al Capo dello Stato: «Sbarazzare il campo» dal fiscal compact e procedere senza esitazioni «con un effettivo firewall finanziario», e con il rilancio dell’economia.
Il presidente della Repubblica segue con attenzione il dossier della grave crisi dell’eurozona, da tempo ripete che la situazione potrà essere superata «con coesione nazionale» e, anche se dal Quirinale in proposito tutto tace, lo schema messo in campo con la mozione parlamentare di sostegno al governo, e della quale terrà la penna in mano il ministro per gli Affari europei Moavero Milanesi, è una architrave di pura architettura napolitanesca: votata dalla grande maggioranza che comprende Pdl, Pd e Terzo Polo, puntellerà la forza del governo nel chiedere, appunto, la crescita oltre il rigore. E un rispetto del metodo comunitario.
Napolitano guarda lontano. Il nuovo Trattato è secondo Van Rompuy «in drittura d’arrivo», a parte la questione degli emendamenti presentati dalla Bce («che però non hanno avuto molto seguito», spera un negoziatore italiano), al prossimo vertice dovrebbero essere presentate solo questioni circo- scritte. Ma dopo, ha fatto presente il presidente della Repubblica, occorre chiarirsi con i Paesi che non sono parte dell’Eurozona: avere il loro assenso, affinché i provvedimenti non vengano poi bloccati magari con richieste di referendum, è essenziale.
L’Europa, nella concezione di Napolitano, è una comunità: non solo occorre rafforzare il metodo comunitario, «senza alcuna ambiguità», come dice spesso il Presidente. Ma il riferimento costante alla legislazione esistente e al quadro istituzionale comunitario è fondamentale sia messo in campo anche per far valere i margini di flessibilità nel rientro dal debito eccessivo. E anche la regola d’oro, cioè l’iscrizione nelle costituzioni delle varie nazioni che compongono l’Unione europea del rispetto della soglia massima di debito pubblico, sarebbe bene non fosse quantificata in dettaglio. L’Italia quel percorso lo sta già seguendo, avrà la «golden rule» nella sua Carta con ampio voto parlamentare e bipartisan. Ma la Costituzione non è né una legge ordinaria, né un regolamento dell’Europa, e così si rischiano difformità. Facile ricordare, a questo punto, quali siano già in campo: in Danimarca la costituzionalizzazione è appena fallita, e ci si è risolti a farne una legge ordinaria, mentre il Lussemburgo ha già fatto sapere che non ritoccherà la propria legge fondamentale. E guardare oltre, avere una visione ricca e larga del futuro dell’Europa, non frustrare le aspettative di chi alla comunità si avvicina, come ad esempio il primo paese della lista, la Serbia.
E adoperarsi per evitare il possibile diffondersi di sentimenti antitedeschi in Europa, come ha chiaramente indicato del resto lo stesso ex cancelliere Helmut Schmidt ai primi del mese scorso. Un modo elegante e analitico per ricordare che non solo l’Italia ma l’intera Europa rischia, nei tentennamenti dell’attuale Cancelliera. Con Van Rompuy, l’altroieri, ha sfondato una porta aperta: la Germania, ha spiegato il presidente del Consiglio europeo, non può credere di avere in questa situazione solo vantaggi, e doppi. E si, «il rischio di sentimenti e campagne antitedesche c’è», ha ripetuto pure a Monti.
La Stampa – 18 gennaio 2012