di Gian Antonio Stella «E dal pugno chiuso una carezza nascerà…». L’esordio alla Camera di Matteo Renzi segna il passaggio da Gigliola Cinquetti ad Adriano Celentano. Era stato troppo sfacciato nell’andare a scazzottare a Palazzo Madama con la spavalderia di chi «non ha l’età»? Altro giro, altra musica. Stavolta il premier suona il violino.
La prende larga, ricordando come già fosse incantato, da sindaco di Firenze, nella sala dei Cinquecento dove «si erano confrontati Leonardo e Michelangelo» e dove aveva sede il Parlamento negli anni della capitale sull’Arno. Ma lì! A Montecitorio! Dove si sedette Giorgio La Pira! «Mi sono detto, entrando in quest’Aula: quanto siate fortunati voi tutti i giorni; perché poi ci facciamo il callo, ci abituiamo, ma sedete nei posti che sono i posti in cui grandissimi personaggi della nostra storia, di diverse estrazioni politiche e culturali si son potuti chiamare “onorevoli”».
Onorevoli? Ma il titolo, schifato dai grillini e già prima contestatissimo e addirittura abolito da una direttiva del Duce nel 1939 non rischierà di rosicchiare consensi all’ex sindaco che lunedì pareva voler coprire insieme il ruolo di condottiero della nuova politica e martellatore della vecchia? Macché, il Matteo del martedì, stremato da giornate intensissime, dalla tensione del debutto in Senato e dall’ascolto di un diluvio di 56 interventi, non ha voglia di altri scazzottamenti. Preferisce, appunto, le carezze. «Onorevole! Io non ho il diritto di chiamarvi in questo modo, ma voi siete onorevoli, degni di onore. Pensate a quanta grandezza e con quale riconoscimento persone che, magari votavano costantemente la Democrazia Cristiana, quando sentivano parlare di Enrico Berlinguer, dicevano: lui è onorevole, è degno di onore, è degno della mia stima. C’era un rispetto dell’altra persona ! E pensate, viceversa, quante persone, che votavano Pci, quando sentivano il nome di Aldo Moro, dicevano: lui è degno di onore, è una persona a cui comunque non darò mai il mio voto ma che rispetto per quello che è e che rappresenta. Quest’Aula è un’Aula che ha visto grandi personaggi…» .
C’è chi, tra i banchi, si stropiccia gli occhi. Chi si stura le orecchie: ma è lui che parla? Quello che Pasqualino Laurito, l’arzillo autore della «velina rossa», chiama perfidamente «il taverniere fiorentino» facendo uno spropositato paragone col «taverniere di Predappio»?
Matteo Renzi se ne infischia, delle perplessità. Lo aspettavano di nuovo pronto a menar le mani? E invece mostra la faccia dialogante. In fondo, se punta ad abolire il Senato, deve aver ben un buon rapporto con la Camera superstite.
C’è chi, davanti al cambio di passo, ammicca. E canticchia quella canzonetta che Claudio Villa dedicò a un deputato che «quand’era a Gioia del Colle / sembrava il modello dell’agitator» ma dopo l’elezione si era presto immedesimato nel ruolo: «L’onorevole Bricolle, deputato di Gioia del Colle, / col suo bianco gilet e le ghette ai suoi piè / farà molto parlare di sé…».
Sciocchezze, garantiscono gli amici: «Ce ne vuole, perché Matteo cambi! Rivoluzionario era rivoluzionario resta. Il fatto è che non si può combattere un match di pugilato al giorno. Soprattutto se non ne vale la pena». Potrebbe aver inciso, nel calo di combattività, la sgradevole sorpresa dei «pizzini». Come poteva immaginare che uno scambio di biglietti confidenziali tra lui e Luigi Di Maio fosse messo online dal vicepresidente grillino della Camera, con il risultato di esporlo a uno sbertucciamento sulla Rete?
Lo stesso foglietto iniziale passato a Di Maio, sotto il diluvio di attacchi del M5S, era una confessione di inesperienza: «Scusa l’ingenuità caro Luigi. Ma voi fate sempre così? Io mi ero fatto l’idea che su alcuni temi potessimo davvero confrontarci. Ma è così oggi per esigenze di comunicazione o è sempre così ed è impossibile confrontarsi? Giusto per capire…». Non l’avesse mai fatto! Risposta gelida: «Ciao. Guida al regolamento: i banchi del Governo devono essere liberi da Deputati quando qualcuno parla in Aula. Il Governo è tenuto ad ascoltare i Deputati…». Doveva capirlo, il premier, che non tirava aria. Macché: era tornato alla carica: «Se vedi occasioni reali di dialogo…» Un patatrac. Seguito dalla messa in Rete del carteggio. Seccante. Molto.
Non bastasse, ha dovuto incassare un uragano di applausi. Ma non a lui: a Enrico Letta. Che è entrato nell’emiciclo e si è diretto a passo lento (la vendetta ha i suoi tempi) verso i banchi dove si era accomodato Pier Luigi Bersani, tornato finalmente dopo la batosta tra gli abbracci di tutti i colleghi. Una specie di risarcimento che fa schizzare l’applausometro. E seguito dalla scelta dell’ex primo ministro di andarsi a sedere, senza una parola, sul primo banchetto davanti al governo. Come a dire: sono qui, ti guardo, guardami.
Fatto sta che quando parte per il suo secondo discorso parlamentare, l’«uomo nuovo» appare assai più cauto. Ricorda l’importanza del Parlamento. Certi momenti vissuti davanti alla tivù quand’era piccolo («Magari qualcuno di voi potrà chiamare il telefono azzurro…») il giorno dell’elezione di Cossiga. Rende omaggio a Bersani per infilzare i colleghi del Movimento 5 Stelle: «Quando io ho perso lui non mi ha espulso, non mi ha cacciato dal Pd e il fatto che oggi sia qui avendo idee molto spesso diverse anche da quelle che rappresento, è un segno d’uno stile e di un rispetto non semplicemente personale…». Rende omaggio («lo riconosco in modo chiaro, evidente e netto, al di là di qualsiasi facile ironia…») alla politica europea di Enrico Letta… Applausino? Macché: gelo…
Gli rinfacciano d’esser stato vago sul programma? Fa professione di umiltà: «Può darsi, può darsi che il mio intervento al Senato fosse tutt’altro che buono, non fosse granché, è assolutamente legittimo che vi siano delle critiche rispetto al tono, alle mani in tasca, alla composizione del governo…». E rilancia: la «stabilità delle scuole che vale ancora più della stabilità dei conti», l’attenzione alla disabilità, la necessità di dare gli stessi diritti alla bambina che porta un cognome straniero «parla con la stessa “c” strascicata» delle amiche, l’obbligo di accelerare perché certo non si può come pretendono i grillini fare tutto con uno «schiocco delle dita, ponendosi nel circuito culturale, dalla Famiglia Addams in poi» ma l’Europa va troppo lenta e l’Italia ancora di più, incita ad avere coraggio, disegna scenari di speranza, chiama all’entusiasmo… Finché va a prendersi l’applauso finale. In faccia a lui applaude anche Enrico Letta. Applausi meccanici. Robotici. Da politburo moscovita. Lenti. Claaap… Claaap… Claaap…
IL Corriere della Sera – 26 febbraio 2014