Oggi ognuno si regola come crede. Chi si ferma a cinque, chi arriva a sette, chi si spinge fino a nove. L’asticella verrà fissata al livello più basso, senza possibilità di sforamento: «L’assemblea può disporre che la società a controllo pubblico sia amministrata da un consiglio d’amministrazione composto da tre o cinque membri». Nessuna eccezione.
La norma è contenuta nel testo unico in materia di società a partecipazione pubblica, in arrivo in uno dei prossimi consigli dei ministri. Ed è la base di calcolo usata l’altro giorno dal presidente del consiglio Matteo Renzi, quando ha parlato della cancellazione di mille poltrone dagli organi di vertice delle ex municipalizzate.
Il testo unico prevede che gli statuti della società dovranno «sopprimere la carica di vice presidente», limitandosi a indicare un facente funzioni in caso di assenza o impedimento del presidente, «senza dare titolo a compensi aggiuntivi». E introdurre il «divieto di corrispondere gettoni di presenza o premi di risultato deliberati dopo lo svolgimento dell’attività o trattamenti di fine mandato». Tradotto, è uno stop ai ricchi bonus di fine mandato per i manager, spesso decisi in zona Cesarini. Quando scatteranno tutte queste norme? Al momento c’è ancora un punto interrogativo. Nelle bozze circolate in questi giorni viene indicata come scadenza la fine del 2016. Ma non è detto. Lo stesso Renzi ha spiegato che il pacchetto potrebbe essere trasformato in un disegno di legge collegato alla legge di Stabilità. In questo caso la scadenza dovrebbe essere anticipata alla fine di quest’anno, in modo da produrre risparmi già nel 2016. Sarebbe una corsa contro il tempo. Anche perché il testo unico prevede che un successivo decreto della presidenza del consiglio «aggiorni i criteri di remunerazione degli amministratori di società», introducendo non solo «nuovi limiti massimi proporzionati alla qualificazione professionale e all’impegno richiesto». Ma anche stabilendo che la parte variabile della retribuzione, cioè i premi, non sia versata in caso di «risultati di bilancio negativi attribuibili alla responsabilità dell’amministratore». Tra poltrone eliminate e limiti vari agli stipendi, dai 25 articoli del testo unico viene fuori una sorta di spending review federalista, una revisione della spesa pubblica che dovrebbe produrre i suoi effetti lì dove il controllo è più difficile, nella periferia dell’amministrazione pubblica. Anche per questo, proprio a Palazzo Chigi, viene creato un organo di vigilanza sulle società a partecipazione pubblica che potrà fare ispezioni, anche d’ufficio, con la collaborazione della Guardia di finanza. Un’attività istruttoria che, in caso di «gravi irregolarità o gravi inefficienze», potrà portare il ministero della Funzione pubblica a proporre l’avvio di una fase di amministrazione straordinaria che, in caso di «crisi irreversibile», potrà arrivare anche alla liquidazione coatta della società. Un meccanismo che dovrebbe garantire il reale rispetto della regola generale: la dismissione o la liquidazione di tutte quelle società che non sono strumentali all’ente pubblico. Quelle, cioé, che si occupano di varie ed eventuali. I possibili rami d’attività vengono ricordati dallo stesso provvedimento e comprendono, tra gli altri, i servizi di interesse generale, la realizzazione di opere pubbliche, la produzione di beni e servizi per l’ente che la controlla, che in caso deve garantire l’80% del ricavato della società. Già la Finanziaria del 2008 diceva che gli «enti locali cedono le società non strettamente necessarie per il perseguimento delle attività istituzionali». Al momento alla voce varie ed eventuali le stime parlano di 3.200 società. Evidentemente non è bastato.
Lorenzo Salvia – Il Corriere della Sera – 7 ottobre 2015