Le cavie usate nei circa 600 laboratori italiani sono poco meno di un milione, per l’80% piccoli roditori, topi e ratti. Servono per la ricerca di base, fatta soprattutto nelle università, e poi per quella farmacologica, in cui i test sugli animali sono obbligatori.
«È una questione di sicurezza: tutti i farmaci usati in Italia, prima che sull’uomo sono stati testati sugli animali», spiega Paolo de Girolamo, professore di Veterinaria a Napoli e presidente dell’Associazione italiana per le scienze degli animali da laboratorio (Aisal). Non solo le medicine che tengono in vita Caterina Simonsen, dunque, ma tutte quelle che si trovano in farmacia.
Nel dibattito sollevato dal suo caso, si è sentito spesso parlare di modelli matematici o in vitro, «alternativi» all’uso di cavie. Non è proprio così: «Questi metodi fanno già parte dei protocolli usati normalmente, ma non sono alternativi: di solito sono “precedenti”. Servono a ridurre l’uso della sperimentazione animale, che oltretutto è molto costosa», dice Marta Piscitelli, vicepresidente Aisal e responsabile del benessere animale nelle sperimentazioni all’Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente di Roma (una figura prevista dalla legge dal 1992). «Nella ricerca sui farmaci si parte con i modelli al computer delle nuove molecole, che simulano la loro azione, poi si passa alle colture di cellule e solo dopo ai test sugli animali: roditori e, per obbligo di legge, non roditori, che servono per i test di controllo — dice Piscitelli —. Se i farmaci non sono dannosi per loro, si testano sugli uomini». È un protocollo stabilito a livello internazionale: «Tutti vorrebbero un metodo alternativo, perché non è piacevole lavorare su animali. Ma per adesso non c’è», dice. Paradossalmente, secondo la veterinaria romana, «le case farmaceutiche avrebbero interesse a non usare gli animali: è un procedimento costoso e ritarda la produzione del farmaco di 2-3 anni». Ma è anche una garanzia per l’uomo: «Molti farmaci non superano la sperimentazione animale».
Le esigenze etiche sempre più diffuse hanno già cambiato in parte la ricerca: «Oggi si sta cercando di sostituire i roditori con un piccolo pesce di 2,5 centimetri, lo zebra fish, che ha un sistema nervoso meno sviluppato e si ritiene soffra meno», dice Piscitelli.
Non è sempre possibile: la chirurgia sperimentale, per esempio quella sui trapianti di organo, continua a usare i maiali. Oppure, soprattutto per la cardiochirurgia, piccoli ruminanti, pecore o capre. Tra gli animali da laboratorio ci sono poi gli anfibi (di solito rane) e in pochissimi casi le scimmie, su cui si testano le ricerche di neurofisiologia. «Sono meno di 100 i cani usati in tutta Italia — aggiunge Piscitelli — di solito come animali di controllo per i farmaci».
Le cavie sono essenziali anche nella ricerca di base delle università. «Ma lì già si applicano procedure molto rigorose che ricalcano la legislazione Ue», spiega Gilberto Corbellini, storico della medicina al Dipartimento di Biotecnologie de La Sapienza, a Roma. «Ogni ricerca deve essere approvata dal comitato etico del dipartimento, ne faccio parte anch’io. Verifichiamo se gli animali sono davvero necessari, che ne siano impiegati il meno possibile, non soffrano e non siano stati usati in altri esperimenti. Se il protocollo prevede il loro sacrificio, non deve essere cruento». Quella che normalmente si chiama «vivisezione» è vietata: l’asportazione di tessuti avviene sempre sotto anestesia. «I limiti imposti dal nostro comitato etico sono equivalenti a quelli che l’ospedale chiede per gli esperimenti sugli uomini. L’unica differenza è che i topi si possono sacrificare», dice Corbellini. Proprio questo, però, è uno dei punti contestati dagli animalisti: «Noi siamo contrari all’uccisione di qualsiasi essere vivente, la nostra è un’obiezione etica di fondo», spiega Claudio Pomo di «Essere animali».
Le cose sono destinate ulteriormente a cambiare con la legge approvata ad agosto. Impone sempre l’anestesia, vieta gli xenotrapianti, i test su animali in studi su alcol e droghe e di allevare cani, gatti e primati destinati agli esperimenti. Doveva essere una traduzione della direttive Ue, per uniformare la legislazione italiana a quella degli altri Paesi. «Ma è molto più restrittiva di quella madre», dicono dall’Aisal. Secondo la comunità scientifica rischia di bloccare la ricerca. Di certo ci costerà una procedura d’infrazione (e una multa) per aver violato, con i troppi limiti, le norme Ue.
Corriere della Sera – 30 dicembre 2013