Vendite interne Il mercato resta in stallo, ma nel 2014 ha subìto un assestamento, dopo sei anni ininterrotti di cali. La crisi ha lasciato qualche segno sull’industria alimentare: non è più un’isola felice, anche se rimane lontana dai crolli degli altri comparti. Lo scivolone dei consumi ha aperto qualche crepa nel muro, ma la solidità della nostra industria non è in discussione.
Tant’è che la produzione è ritornata alla crescita, sia pure di pochissimo. Ma la forza dell’export non è più quella di qualche anno fa: nel 2014 si stima che le esportazioni abbiano realizzato un mini balzo di circa il 3% a 27 miliardi. Niente male di questi tempi, ma nel biennio 2010 e nel 2011 la crescita è arrivata al 10% per poi declinare al 6,9% e al 5,8% nei due anni successivi.
I recenti casi di ristrutturazione aziendale, compresi gli ultimi i casi di Coca Cola, Agnesi, Newlat e Latterie friulane con chiusura di stabilimenti, Cig e mobilità, sono segnali preoccupanti per l’intero comparto. I margini industriali si sono assottigliati sotto i colpi di una crisi dei consumi che nel 2013 ha limato la domanda del 3% ma che sale al 14% se si parte dall’inizio della recessione, il 2007.
L’industria alimentare tricolore è il secondo settore manifatturiero, con 132 miliardi di fatturato e 400mila addetti. Acquista e lavora il 72% delle materie prime dell’agricoltura nazionale.
Ma quali sono oggi le prospettive dell’alimentare in Italia? Intanto, l’ufficio studi di Federalimentare stima che il comparto ha chiuso il 2014 un +0,5% della produzione, +3% dell’export e -0,2% dei consumi interni. «Il fatto positivo – secondo Federalimentare – è, soprattutto, l’assestamento del cuore della crisi ovvero del mercato interno: dopo sei anni ininterrotti di cali e la perdita in valore di oltre 14 punti a valore costante, si registra un segnale di stabilizzazione». Ma poi soprattutto si sottolinea che la produzione nel 2014 ha riconquistato il segno “più” dopo tre anni di cali. «È un altro segnale di svolta – sottolinea – anche se la ripresa è ancora nell’ordine dello zero virgola». Purtroppo la crescita della produzione coincide con la frenata dell’export: infatti risulta deludente il +3% del 2014, il tasso di espansione più modesto degli ultimi anni. Forse causato dal rallentamento dell’economia mondiale e dalla forza dell’euro (almeno fino a qualche mese fa) ma il food made in Italy mantiene intatto il suo potenziale di crescita. Le Pmi devono soltanto aggregarsi e strutturarsi per affrontare nel modo migliore i mercati internazionali.
A questo scopo serviranno anche le risorse messe a disposizione per il made in Italy dalla legge di Stabilità 2015, ma soprattutto Expo: l’Esposizione, certo, non è una fiera (se non per il 20%) ma promuovere per sei mesi in Palazzo Italia, nel Padiglione dell’alimentazione e in quello del vino il prodotto e il brand delle società è una chance da non lasciarsi sfuggire.
Del resto è proprio lo sviluppo dell’export agroalimentare – da 30 a 50 miliardi – al centro dell’agenda 2015/18 del nuovo presidente di Federalimentare Luigi Scordamaglia. Ma anche il premier Renzi lo ha posto come obiettivo del 2020.
Secondo gli industriali, l’alimentare costituisce un asse portante della nostra economia. E, nonostante la crisi, ha ancora le potenzialità intatte per essere il motore della crescita e della ripresa dell’economia. Siamo alla vigilia di un evento che per 6 mesi accenderà sull’Italia i riflettori dell’opinione pubblica mondiale, Expo sarà un’occasione unica per raccontare e promuovere i valori unici che stanno dietro il nostro modello agroalimentare.
Il peso dell’export sul fatturato dell’alimentare è, in 10 anni, quasi raddoppiato, passando dal 13% del 2003 al 20% del 2013, per un valore di circa 30 miliardi di Euro. Ma siamo ancora lontani da competitor come Spagna (22%), Francia (28%) e, soprattutto, Germania (32%).
Come raggiungere l’obiettivo? Secondo l’agenda di Federalimentare, con il coordinamento con le istituzioni nell’impiego delle risorse per la promozione del made in Italy e con un impegno congiunto per contrastare i principali ostacoli alla competitività del settore in molti dei nuovi mercati di sbocco: barriere non tariffarie, campagne aggressive verso il nostro modello alimentare mediterraneo, come le etichette a semaforo in Gran Bretagna.
Luigi Scordamaglia (Federalimentare): «Ora abbattiamo le barriere doganali»
Abbattere le barriere non tariffarie diffuse nel mondo e dare una scossa a una burocrazia inerte: Luigi Scordamaglia, neo presidente di Federalimentare, ha individuato immediatamente i due grandi grossi nodi da sciogliere.
«Sulle barriere non tariffarie – sostiene Scordamaglia – non riusciamo a cavare un ragno da un buco. Mentre gli irlandesi, dopo 17 anni da mucca pazza, sono riusciti a farsi riaprire le porte degli Stati Uniti». Che significa presidente? Che a livello politico otteniamo il massimo del consenso ma quando la palla passa ai burocrati le cose si fermano. Sulle barriere non tariffarie ci scavalcano tutti. Qualche esempio concreto? Il Governo trova risorse per il piano Made in Italy ma poi non si riesce tecnicamente a fare un passo avanti nella rimozione di quelle barriere tecniche e sanitarie che ci impediscono di entrare nei mercati principali, per esempio la listeria nelle carni bovine negli Usa o i salumi in Giappone. Un altro esempio? Il Governo vuole semplificare i controlli con il registro unico dei controlli ma alcune forze di polizia si oppongono per principio. E ancora: il governo vuole rilanciare i consumi ma qualche zelante burocrate dello Sviluppo economico, confondendo anche l’Iva della gdo sui beni piuttosto che sui servizi, si inventa una reverse charge (l’inversione contabile dell’Iva, ndr) che farà fallire migliaia di Pmi alimentari a causa dell’aumento del credito Iva verso lo Stato.
Se si concludesse l’accordo di libero scambio con gli Usa si aprirebbero molte porte.
Soprattutto si tutelerebbero le nostre Denominazioni. Anche con un compromesso, com’è successo con il Canada.
L’anno scorso l’export alimentare italiano ha rallentato ancora: la crescita sarà del 3%. Cos’è successo?
La frenata è stata evidente in diversi paesi europei, da cui dipendiamo ancora troppo. Certo, ha pesato anche l’euro forte ma contano ancora una volta le barriere non tariffarie. L’Italia può avere il cibo migliore del mondo ma se poi ci fermano alle frontiere che possiamo fare?
Sul risultato deludente dell’export 2014 ha pesato molto la frenata del vino?
La frenata c’è stata, ed anche importante, ma non è solo quello. Alcuni mercati hanno rallentato la crescita ma quello che ci penalizza di più sono ancora le barriere non tariffarie.
Nel 2014 la produzione dell’industria alimentare è tornata a crescere, sia pure di mezzo punto. Siamo alla ripresa?
Non enfatizzerei troppo questo mezzo punto, anche perchè senza una ripresa corposa della domanda interna non si va da nessuna parte. E mai come in questo momento le decisioni politiche avranno un peso fondamentale.
Il Sole 24 Ore – 15 gennaio 2015