
«Il futuro fa paura. Calano i consumi e aumenta l’invidia sociale». Pugliese (Conad): l’export da solo non basta
di Isidoro Trovato L’Italia ha un problema di crescita. Il rallentamento del Pil (oggi l’Istat ha annunciato la stagnazione nel terzo trimestre) e la frenata dei consumi parlano chiaro: gli italiani hanno più paura del futuro. «È una situazione diversa rispetto al passato e anomala da quando è scoppiata la grande crisi economica — afferma Francesco Pugliese, amministratore delegato di Conad — in questi anni abbiamo mediamente recuperato potere di spesa ma in questa fase è in aumento il timore per il futuro. Tradizionalmente i consumi calano quando gli italiani decidono di mettere da parte risparmi per un domani che si fa più incerto».
Quando vi siete accorti dell’inversione di tendenza?
«I segnali erano chiari già a gennaio, i timori si sono rafforzati a marzo e adesso la nuova previsione dell’Istat non sorprende».
Eppure altri parametri sembrerebbero in controtendenza, per esempio l’occupazione è migliorata.
«La nuova occupazione è cresciuta ma ha portato contratti a tempo determinato con meno potere d’acquisto».
Meno fiducia nel futuro, quindi meno consumi?
«Abbiamo realizzato, assieme al Censis, una ricerca sulla fiducia. Tra i vari dati emersi, è interessante quello che si riferisce alla “curva dell’invidia”: se il 28% degli italiani all’inizio di quest’anno ha dichiarato che la propria condizione economica migliorerà, il 35% è convinto che migliorerà di più quella degli altri. Un delta del 7% che dieci anni fa era nullo. Cresce quindi l’invidia sociale e la sfiducia nelle istituzioni, elementi che quasi sempre si accompagnano a una frenata economica».
Anche la produzione però conosce una battuta d’arresto, l’anno si chiuderà con un Pil inferiore alle attese.
«Appena l’anno scorso tutta la grande distribuzione ha fatto registrare un dato positivo dopo quattro anni di tendenze negative. L’effetto sembra essere svanito anche sul fronte della produzione perché abbiamo avuto una leggera flessione dell’export. Da tempo diciamo che bisogna far ripartire i consumi interni. In questi anni le esportazioni hanno tenuto in piedi le nostre imprese e il nostro sistema economico ma un Paese non può vivere di solo export. Basta qualche fibrillazione internazionale, come quella in corso su scala globale, e si finisce per andare in sofferenza e rallentare la produzione».
Poi però c’è anche un’Italia che resiste e reagisce, quella che racconta nel suo libro «Tessiture sociali».
«Un mondo virtuoso che ho conosciuto nel mio viaggio in 40 città italiane. Nel testo si raccontano storie come quella del Birrificio Messina, messo in piedi dagli ex operai che hanno investito il proprio Tfr per fondare una cooperativa che rilevasse l’impresa oppure quella di Brescia dove il dna manifatturiero ha lasciato spazio all’agroalimentare di eccellenza, che porta il nome del Grana Padano e del Franciacorta».
Nessun gap di eccellenze tra Nord e Sud?
«Proprio questa è la novità, la spaccatura non è solo tra Nord e Sud ma tra un Paese che reagisce e uno che si rassegna. Indipendentemente dalla latitudine, c’è un’Italia migliore di come la raccontiamo o la immaginiamo, che non sta sotto i riflettori, ma che ha fatto del radicamento e del fare comunità i suoi nuovi fattori economici e di competitività, secondo un modello di sviluppo diverso da quello a cui siamo abituati. Bisogna dare fiducia a questo modello e non mettere l’Italia nelle condizioni di diventare marginale. Oggi solo i greci sono più sfiduciati di noi. E non è un buon segnale».
CORSERA