Il leader si prepara alle Europee e medita un taglio di 2mila euro agli stipendi dei parlamentari
«Mi gioco, anzi, ci giochiamo tutto in due mesi»: il passaggio dall’ «io» al «noi» in una persona come Matteo Renzi conta. Eccome. Lascia intendere come lo stesso presidente del Consiglio abbia capito il valore e la difficoltà della sfida.
«Nessuno mi regalerà o mi perdonerà nulla. Se il risultato delle europee non sarà buono, è ovvio che la responsabilità sarà mia». E qui il registro cambia. E si torna all’io. Ma per assumersi l’assunzione di colpa in caso di una sconfitta che potrebbe arrivare il 25 maggio e che potrebbe segnare già una parabola discendente. Renzi lo sa. Non se lo nega. Non se lo nasconde. Come non fa finta che la nascita del suo governo non sia stata laboriosa, faticosa e difficoltosa. Nel suo staff ammettono che tra i sottosegretari non ci sono nomi di spicco, anzi, che tanti sono di risulta. «Però abbiamo evitato Catricalà alle telecomunicazioni», dicono. E aggiungono: «Non è stato né facile né scontato».
Insomma, gli uomini di Renzi rivendicano di essere riusciti a fare fuori il sottosegretario alle Telecomunicazioni messo da Enrico Letta, amico del di lui zio, Gianni, e in ottimi rapporti con Berlusconi. Un bel salto inserire in un posto come quello Antonello Giacomelli, fedelissimo di Dario Franceschini, deputato di Prato, certamente non troppo propenso a fare sconti al Cavaliere, al contrario di chi occupava la sua poltrona prima di lui. Ma Renzi sa che questo non basta. Che quell’avvicendamento è un segnale per esperti, o per chi sa di che cosa si parla. Non è sufficiente. Non è questo che gli «italiani chiedono». Vorrebbero dei messaggi più evidenti.
Spiega il presidente del Consiglio ai suoi: «Noi non solo possiamo, ma dobbiamo dare un segnale di cambiamento, e mi rendo conto che ci tocca darlo a breve perché la gente è disorientata, perché la gente ha paura del futuro». E a proposito del futuro: è breve quello che caratterizza le prospettive dell’inquilino di palazzo Chigi. «Io in due settimane devo avere pronto il jobs act. Quello che presenterò anche alla Merkel. Ma non lo voglio pronto perché devo preparare i compiti a casa per l’Europa o per la Germania. Non mi interessa quello, mi interessa la disoccupazione, i cui tassi sono sempre più alti, soprattutto tra i giovani».
E ci sono dei segnali che il premier vorrebbe dare subito. Per far capire che la politica non vive in un mondo avulso dalla realtà, dove vige il privilegio. Uno, per la verità, lo ha già dato. Nel consiglio dei ministri in cui ha nominato una sfilza di sottosegretari scelti rigorosamente con il Manuale Cencelli. Un primo piccolo segnale. Anticipatore di quello che verrà. Finora i deputati avevano un rimborso forfettario di poco meno di 4 mila euro l’anno per le telefonate fatte con il cellulare. Senza alcuna documentazione. Le pagava la Camera. Ossia, per farla molto molto spiccia, il contribuente. La cifra esatta: 3.974. Se poi a chiamare fosse il figlio, la moglie, la sorella, la madre, il padre, la nonna o il nonno, l’amico o l’amica del parlamentare in questione, poco importava. E se la conversazione fosse privata, interessava ancora meno.
In Consiglio dei ministri Renzi ha fatto passare una modifica: gli euro saranno 1.200. Cioè meno della metà. E dovranno essere documentati. Non solo, dovrà essere dimostrato che a fare quelle telefonate sono stati i deputati nell’esercizio del loro mandato parlamentare. Un’inezia, là per là. «Una bella rottura di scatole», nei commenti di più di un appartenente alla Camera.
E per fortuna che l’inquilino di palazzo Chigi non ha fatto ancora la prossima mossa. Non fidandosi della celerità con cui il Senato farà harakiri e temendo che chi siede sugli scranni di palazzo Madama farà di tutto per allontanare quella data, il presidente del Consiglio, che vuole ottenere dei tagli ai costi della politica prima delle europee, medita un’altra mossa a sorpresa: decurtare di duemila euro lo stipendio dei parlamentari.
Maria Teresa Meli – Corriere della Sera – 1 marzo 2014