Altro che i barili di greggio, la commodity del momento è l’oro rosa: grande è il fermento nel comparto dei suini, a livello globale e con vista – ancora sullo sfondo, per il momento – sull’Italia. Epidemie, equilibri di mercato e geopolitica: c’è ogni ingrediente nel menu di questa vicenda. Tutto origina dalla peste suina africana – mortale per gli animali, innocua per gli umani – che, partendo dall’Est Europa, ha decimato i capi in Cina. Da oltre un anno, ormai, il più grande consumatore al mondo di carne di maiale lotta senza successo per contenere l’epidemia. L’abbattimento preventivo è stata l’unica soluzione possibile per Pechino e, calcola la Confagricoltura che segue interessata la vicenda, si stima che dei 440 milioni di maiali cinesi ne siano andati persi il 20 per cento.
Con le scorte (pur ingenti) in riduzione e una domanda sempre sostenuta, l’esito è stato un rincaro dei prezzi, sul mercato asiatico, del 50% da inizio anno. E il massiccio ricorso alle importazioni. Nei giorni scorsi, il ministero del Commercio di Pechino ha messo mano alle riserve di carne congelata (accumulate da Danimarca, Germania, Francia e via dicendo) per 10 mila tonnellate: una mossa per stabilizzare le forniture e i prezzi, in vista dei festeggiamenti del settantesimo della Repubblica popolare che partiranno a inizio ottobre.
L’onda d’urto è arrivata in tutto il mondo, amplificata dall’intreccio con la guerra dei dazi tra Usa e Cina. Proprio la carne suina americana è stata oggetto della controffensiva di Pechino alle tariffe di Trump ed è stata estromessa dal mercato asiatico a botte di dazi al 72%. Una decisione in via di revisione: dovrebbe esser tra i prodotti esentati dalle tariffe, vista la situazione allarmante. Intanto, però, il muro contro muro ha rivoluzionato il flusso globale dei suini. Con vincitori e vinti.
Nel primo semestre del 2019, l’Europa ha visto crescere l’export di carni suine verso la Cina del 42%, arrivando a pesare per quasi la metà del totale. Germania e Spagna guidano il drappello, con Madrid che sta marciando a passo spedito: presto potrebbe arrivare a tagliare il traguardo del miliardo di dollari di maiale venduto nell’ex Impero di Mezzo. Anche il Brasile, fuori dal Vecchio continente, è tra quelli che stanno approfittando della situazione. E i nostri produttori? “In queste settimane i primi macelli italiani autorizzati all’esportazione stanno preparando le loro spedizioni”, racconta Claudio Canali, allevatore a Predappio e presidente della Federazione nazionale di prodotto allevamenti suini. Per il momento si tratta di nove macelli, che hanno ricevuto il via libera a seguito dell’accordo siglato nel marzo scorso, quando la delegazione cinese venne in visita in Italia. La Via del Maiale è ancora tutta da aprire, insomma. “Ma in prospettiva è molto interessante, per due ragioni: la Cina consuma anche le parti che per noi sono scarti – orecchie, teste, piedi e interiora – e trasforma così un costo in un ricavo aggiuntivo di 15-20 euro per capo. Poi, al traino di questo export dobbiamo esser bravi a piazzare le nostre Dop e i prodotti di qualità”.
Ma c’è un dividendo indiretto da questa situazione, che i nostri produttori hanno già incassato: la crescita generalizzata dei prezzi. “Se fino a marzo-aprile, con le quotazioni basse per via dell’eccesso di prosciutto stoccato, perdevamo 50 euro a maiale lavorato, oggi siamo passati a guadagnare quella cifra”, dice Canali. La quotazione della carne rosa è risalita a 1,66 euro al chilo, contro i minimi sotto gli 1,2 euro di inizio anno e di nuovo ai livelli del 2017.
La situazione è in continua evoluzione e anche il mondo della finanza ci ha puntato i fari: fioccano i report delle banche d’affari sul tema. A Jefferies sono convinti che le greggi asiatiche faticheranno a tornare ai livelli antecedenti la peste: dalla banca americana si aspettano un calo della produzione superiore al 30% quest’anno, per tornare in linea di galleggiamento solo nel 2022-2023. Insomma, per qualche anno almeno i prezzi dovrebbero restare più alti e sostenere così anche i produttori tricolori.
Ma per una categoria (allevatori e macellatori) che può beneficiare dell’apertura della via ad Est e dell’aumento dei prezzi, ce ne sono altre che già lamentano il fiatone. Assica, l’Associazione confindustriale delle Carni e dei Salumi, lancia l’allarme: “Con prezzi elevati e consumi interni deboli, a soffrire saranno i Paesi che hanno una vocazione per la trasformazione”.
Proprio come l’Italia, che produce solo il 60% della carne che trasforma o consuma e non è dunque autosufficiente. “Da marzo in avanti, i salumifici sono entrati in un tunnel”, spiega Davide Calderone. Nell’industria della trasformazione, dove il costo della materia prima pesa per il 50-75% dei costi totali, “il problema è serio, perché la redditività è sempre più schiacciata”. Ad agosto, secondo l’indice mensile di Unioncamere-Bmti, la carne di maiale all’ingrosso è rincarata in Italia dell’8,7% sul mese precedente. Ma pensare di scaricare tutti i costi aggiuntivi sui consumatori finali può essere un boomerang, soprattutto in una fase in cui il mercato si sta contraendo: il rischio è di vedere i carrelli girare ancor più alla larga da prosciutti&co. e mettersi in un cul de sac.
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