di Sergio Rizzo Qualche settimana fa, all’ultimo esame della commissione interna sullo «stato di avanzamento della professionalità» necessario alla Camera dei deputati per ottenere l’aumento di stipendio, si sono presentati in cento. E sono passati in novantanove. Novantanove fuoriserie e una sola utilitaria scassata che in certi passaggi della prova, una tesina scritta, aveva perso colpi sull’italiano.
Si può allora dar torto alla signora Anna Danzi, dipendente di Montecitorio aderente a uno degli 11 (undici) sindacati della Camera, capace di paragonare se stessa nientemeno che a una Porsche? «Il nostro lavoro richiede una elevata professionalità. Come una Porsche, ha un costo», ha argomentato con Tommaso Ciriaco di Repubblica.
Che una Porsche beva molto più di una Panda lo sappiamo. Il problema è se il consumo sia giustificato o meno. Purtroppo per la signora Anna Danzi sembrerebbe proprio di no: le Porsche della House of Commons, per dirne una, consumano un quarto. Ogni dipendente dell’equivalente britannico della Camera dei deputati (con 650 eletti contro i nostri 630), guadagna in media 40 mila euro l’anno contro circa 150 mila a Montecitorio.
Da questo semplice paragone si capisce l’enormità della coraggiosa missione nella quale si sono imbarcati Laura Boldrini e Pietro Grasso: ridurre retribuzioni andate letteralmente in orbita negli ultimi quindici anni grazie a progressioni insensate, scatti di anzianità assurdi, adeguamenti automatici fuori dalla realtà. Lo dicono chiaro e tondo i dati ufficiali. Alla Camera dei deputati ci sono 81 funzionari che hanno una retribuzione lorda fra i 270 e i 370 mila euro annui. Altri 83 viaggiano fra i 170 e i 270 mila. Un consigliere parlamentare al massimo della carriera porta a casa uno stipendio lordo, comprensivo degli oneri previdenziali, di 421.220 euro l’anno. Più l’indennità di funzione, che varia dai 378 euro netti al mese per un capo ufficio ai 662 del segretario generale. Le tabelle ci dicono che a Ugo Zampetti, da tre lustri al vertice supremo dell’amministrazione, spetta una retribuzione complessiva di 478.149 euro, al lordo degli oneri previdenziali ma al netto dell’indennità di funzione che avvicina ulteriormente la sua busta paga al mezzo milione annuo. Idem per la sua collega del Senato, Elisabetta Serafin. Per capirci, più del doppio rispetto al tetto dei 240 mila euro: l’indennità del presidente della Repubblica che il governo Renzi ha assunto come parametro massimo per gli stipendi dei dirigenti pubblici.
Un limite al quale si dovrebbero adeguare anche Montecitorio e Palazzo Madama. Sulla carta. Perché l’idea che la riforma ora in discussione (e alla quale le 25 sigle sindacali interne per poco più di 2 mila dipendenti sono corporativamente e ferocemente contrarie) possa far scendere tutte le retribuzioni più elevate sotto quel tetto è per il momento pura fantasia. Chiariamo, per non essere fraintesi: che si stia tentando finalmente di ridimensionare paghe pubbliche letteralmente impazzite è da considerare meritorio. Almeno quanto lo è stata la rescissione (fortemente sostenuta anche dai grillini) dei favolosi contratti per i palazzi Marini che ospitano gli uffici personali dei deputati, stipulati con l’immobiliarista Sergio Scarpellini alla fine degli anni Novanta e costati finora ai contribuenti centinaia di milioni. Considerando peraltro che nessuno, prima di Boldrini e Grasso, aveva osato affrontare quel capitolo. E di questo va dato loro atto. Sui risultati concreti della riforma, però, restano tanti punti di domanda.
Intanto i tagli entreranno a regime non prima del 2018. Fra quattro anni. La differenza fra la retribuzione attuale al netto degli oneri previdenziali e il tetto rispettivo stabilito per ogni categoria sarà abbattuto progressivamente, del 25 per cento l’anno. Per fare un esempio, un consigliere parlamentare con 30 anni di servizio che guadagna al netto degli oneri pensionistici 318.654 euro, nel 2015 si vedrà alleggerire di 19.663 euro lo stipendio, che passerà in questo modo a 298.991 euro. La retribuzione di un documentarista che ha 30 anni di anzianità, pari a 212.077 euro al netto dei medesimi oneri previdenziali, sarà ridotta il prossimo anno di 11.602 euro, somma corrispondente a un quarto della differenza fra quella somma e il tetto fissato per la sua categoria: 165.669 euro. Salvo poi recuperare, come ora vedremo, parte del taglio.
Perché mentre il compenso di 240 mila euro del capo dello Stato è lordo, qui invece quel tetto s’intende al netto degli oneri previdenziali e soprattutto dell’indennità di funzione. Voce che per compensare la riduzione dei compensi mantenendo una distanza economica fra le varie categorie di dipendenti verrà alzata fino a un massimo del 25 per cento dello stipendio. Uscita dalla porta, una fetta importante della vecchia busta paga rientrerà perciò dalla finestra. In soldoni: se oggi l’indennità di funzione per il segretario generale si aggira intorno agli 8 mila euro netti l’anno, domani potrà salire a 60 mila euro lordi. Con il risultato che la sua retribuzione complessiva, una volta a regime, passerà dai circa 500 mila euro attuali ad almeno 350 mila: 240 mila di stipendio, 60 mila di indennità più circa 50 mila di oneri previdenziali.
Il tutto in mancanza di un sistema di valutazione autenticamente meritocratico, dal quale un’istituzione pubblica fondamentale e prestigiosa come il Parlamento non dovrebbe prescindere. Dicono tutto i risultati di quell’esame sullo «stato di avanzamento della professionalità» con il 99 per cento di promossi.
Per non parlare della sopravvivenza di certi istituti anacronistici. Cosa ne sarà del folle adeguamento automatico delle retribuzioni che vale, tenetevi forte, quasi quattro milioni e mezzo l’anno? Meritoriamente è stato bloccato sia per il 2014 che per il 2015, con il risultato che nel 2016 si spenderanno 8,9 milioni in meno del previsto. Ma in seguito potrebbe riprendere a correre come prima?
E si metterà un giorno mano alla questione delle ferie? Il regolamento della Camera consente oggi di convertire gli straordinari in giornate di vacanza. In tre giorni lavori 7 ore e mezza più del dovuto? Ti puoi prendere un giorno. E non consumi le ferie, che in questo modo si accumulano per costituire un’altra sostanziosa buonuscita nel momento della pensione. Al 31 dicembre 2012 le giornate di ferie non godute erano 114.882. In media 74 a dipendente, per un costo ipotetico a carico dell’amministrazione valutabile in almeno una settantina di milioni. In 37 hanno da parte un gruzzolo fra 300 e 400 giorni. In 35, oltre 400 giorni. In 14, almeno 500: due anni di stipendio. Tondi tondi.
Il Corriere della Sera – 20 settembre 2014