Il dato nel rapporto Istat, Inps, Ministero del Lavoro: il “rischio povertà” è cresciuto dal 26,3% del 2010 al 29,9% del 2011, la variazione negativa più elevata tra i Paesi Ue. Un Paese con 8 milioni di poveri, contratti di lavoro instabili, un pensionato su due vive con meno di mille euro al mese, scarsa la mobilità sociale.
E persiste la questione meridionale: a Sud rischio povertà superiore alla media nazionale di circa 15 punti percentuali (39,5% contro 24,6%), più del doppio rispetto al Nord (15,1%)
ROMA – Aumentano gli italiani a rischio povertà o esclusione sociale: il relativo indicatore sintetico ‘Europa 2020′ è cresciuto dal 26,3% del 2010 al 29,9% del 2011. La variazione negativa di 3,3 punti percentuali è la più elevata registrata nei Paesi Ue. E’ quanto emerge dal rapporto sulla coesione sociale Istat, Inps, ministero del Lavoro.
L’Italia dei poveri. Nel 2011, le famiglie in condizione di povertà relativa sono in Italia 2 milioni 782 mila (l’11,1% delle famiglie residenti), corrispondenti a 8 milioni 173 mila individui, il 13,6% dell’intera popolazione. Nel corso degli anni, la condizione di povertà è peggiorata per le famiglie numerose, con figli, soprattutto se minori, residenti nel Mezzogiorno e per le famiglie dove convivono più generazioni.
Nel 2010, in Italia è materialmente povero il 25,8% delle famiglie residenti nel Mezzogiorno, (contro il 15,7 della media nazionale), valore che raggiunge il 30% in Sicilia e in Campania. Segnali di peggioramento si osservano per le famiglie che non si possono permettere di riscaldare adeguatamente l’abitazione (che passano dal 10,6% del 2009 all’11,5%) e per quelle che arrivano con molta difficoltà alla fine del mese (dal 15,3 al 16%).
Risultano invece sostanzialmente stabili le quote di famiglie che non si possono permettere una settimana di ferie lontano da casa almeno una volta all’anno e non possono far fronte a una spesa imprevista con mezzi propri. Nel Mezzogiorno il rischio di
povertà o di esclusione sociale supera la media nazionale di circa 15 punti percentuali (39,5% contro 24,6%) ed è più del doppio rispetto al valore del Nord (15,1%); inoltre è maggiore fra le famiglie con tre o più figli (37,1%) e fra quelle monogenitore (35,7%).
Stabile solo il 19% dei nuovi contratti di lavoro. Nei primi sei mesi del 2012 sono stati attivati oltre cinque milioni di rapporti di lavoro, ma meno di uno su cinque è a tempo indeterminato, mentre il 68% delle nuove assunzioni è a termine. Il 19% dei nuovi rapporti di lavoro è stato formalizzato con contratti a tempo indeterminato (1.031.949) mentre l’8,5% (461.086) sono state le collaborazioni. I rapporti di apprendistato hanno rappresentato poco meno del 3% del totale avviamenti pari a 156.135 nuovi contratti. Nel corso del primo semestre del 2012, i nuovi avviamenti sono stati 5.421.084, circa 3.925.328 hanno riguardato il settore dei servizi, 788.113 l’industria (di cui 350.443 il comparto delle costruzioni) e 707.643 l’agricoltura. Le “cessazioni” di rapporti di lavoro sono state 4,49 milioni.
Giovani sempre più lontani dal tempo indeterminato. I lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato sono 10 milioni 492mila (-0,7% rispetto al 2011). Si riduce soprattutto il numero dei lavoratori sotto i 30 anni (-8%) mentre aumenta quello degli over30 (+0,7%). Le donne con un lavoro standard sono oltre 4 milioni 206mila, in crescita dello 0,4% rispetto al 2011, mentre i colleghi maschi (6 milioni 286mila) presentano una flessione dell’1,5%.
Ancora in calo il lavoro dipendente. Continua il calo del numero dei lavoratori dipendenti. Nel 2012 (media primo semestre) sono 12 milioni 288mila gli occupati (anche agricoli e domestici), circa 165mila in meno rispetto all’anno precedente (-1,3%). Il decremento riguarda tutto il Paese (con l’unica eccezione della Valle d’Aosta) ed è particolarmente accentuato nelle Isole (-4,5%), nel Centro e nel Sud (-1,7%). Nord Ovest (-0,5%) e Nord Est (-1%) presentano un calo minore. In Lombardia, dove si concentra il maggior numero di lavoratori dipendenti (in media 2 milioni 738mila, pari al 22,3% del totale), si osserva la riduzione più contenuta (-0,2%). Un calo più marcato si registra in Sicilia (-4,6%) che nel 2012 assomma 604mila lavoratori dipendenti, pari al 4,9% del totale. Negli ultimi quattro anni (2009-2012) si è assottigliata la quota di lavoratori dipendenti under30, dal 19,7% al 16,9% mentre nell’ultimo anno il loro numero si è ridotto dell’8,7%. Aumenta il peso relativo della quota femminile, dal 40,6% del 2009 al 41,5% del 2012.
Stipendi: per i maschi italiani è più alto di donne e immigrati. Gli italiani maschi guadagnano più delle donne italiane e degli immigrati. Nel 2011 la retribuzione netta mensile media è di 1.300 Euro per i lavoratori italiani e di 984 per gli stranieri. I lavoratori italiani guadagnano più delle donne: 1.425 euro in media contro 1.143. Ma il divario di genere è più accentuato tra la popolazione straniera: gli uomini percepiscono in media 1.134 euro, le donne solo 804.
Pensionati: 7,9 milioni con meno di mille euro. Circa 7,9 milioni di pensionati in Italia ha un reddito da pensione inferiore a 1.000 euro al mese. Si tratta del 47,5% dei pensionati (16,69 milioni a fine 2011). Il 37,7% dei pensionati percepisce un reddito fra mille e duemila euro, mentre il 14,5% dei pensionati ha un reddito superiore a duemila euro. Dal 2009 al 2011, grazie alle riforme, il numero dei pensionati è diminuito mediamente dello 0,4%. Il 75% dei pensionati percepisce solo pensioni di tipo invalidità, vecchiaia e superstiti (Ivs), mentre il 25% ha assegni di tipo indennitario e assistenziale, eventualmente cumulate con pensioni Ivs. Il 28,3% dei pensionati risiede nel Nord Ovest, il 20,1% nel Nord Est, il 20,1% nel Centro, il 21,2% nel Sud e il 10,2% nelle Isole. Dal 2009 al 2011, anche in funzione delle recenti riforme previdenziali, il numero dei pensionati diminuisce mediamente dello 0,4%, mentre l’importo annuo medio e mediano del reddito aumentano del 5,3%.
A Milano e Roma il 71% dei senza dimora. Milano e Roma accolgono il 71% delle persone senza dimora stimate dalla rilevazione dell’Istat. Più della metà delle persone senza dimora che usano servizi (58,5%) vive nel Nord, il 22,8% nel Centro e il 18,8% nel Mezzogiorno. Si tratta per lo più di uomini (86,9%), la maggioranza ha meno di 45 anni (57,9%), nei due terzi dei casi hanno conseguito al massimo la licenza media inferiore, il 72,9% dichiara di vivere solo. In quasi sei casi su dieci si tratta di stranieri (59,4%). Secondo il rapporto, uno degli eventi più rilevanti del percorso che conduce alla condizione di ‘senza dimora’ è la perdita di un lavoro (61,9%) insieme alla separazione dal coniuge e/o dai figli (59,5%) e, con un peso più contenuto, alle cattive condizioni di salute (16,2%).
Scarsa mobilità sociale. Nel 2009 (ultima indagine Istat) il 62,6% degli occupati si trova in una classe sociale diversa da quella dei padri, un valore non diverso da quello del 1998. L’origine sociale continua a pesare moltissimo sul futuro delle nuove generazioni. Questo è evidente se si prende in considerazione la mobilità intergenerazionale, ossia il confronto della classe sociale dei figli con quella dei padri, che mostra dinamiche preoccupanti: le posizioni rivestite dai figli al momento dell’ingresso nel mercato del lavoro sono più spesso simili a quelle dei loro padri. L’unico vero anticorpo a questo blocco sociale è il titolo di studio, che, pur non eliminando il familismo, aiuta a salire i gradini della piramide sociale. Nel nostro Paese l’accesso ai livelli più alti appare più semplice per chi cresce in famiglie agiate e istruite. Infatti, i dati Ocse del 2010 confermano che in Italia la probabilità di laurearsi, per una persona il cui padre non abbia completato gli studi superiori, è tra le più basse d’Europa: circa il 10%, rispetto al 40% per l’Inghilterra e al 35% per la Francia.
Oltre 15 milioni di certificati malattia. Nel 2011 sono stati trasmessi circa 11 milioni 714 mila certificati di malattia per il settore privato e 4 milioni 705 mila per la pubblica amministrazione. Nella distribuzione regionale, la Lombardia è al primo posto per il settore privato, il Lazio e la Sicilia per il comparto della pubblica amministrazione. La durata media di malattia è pari a 9 giorni per evento nel settore privato e a 7 giorni nella pubblica amministrazione. Nel Nord-Ovest si registra il numero più alto di eventi e giornate di malattia per il settore privato, mentre per quello pubblico il valore più alto si riscontra nel Sud. Tra i due comparti diversa è anche la distribuzione per genere: il 57% dei maschi nel settore privato, contro il 31% nella pubblica amministrazione.
Quasi 7 miliardi per i servizi sociali. Nel 2009 i comuni italiani, in forma singola o associata, hanno destinato agli interventi e ai servizi sociali 6 miliardi e 978 milioni di euro. La spesa media pro capite è pari a 115,9 euro, ma le differenze territoriali sono significative: si va da un minimo di 25,5 euro in Calabria a un massimo di 297 nella provincia autonoma di Trento. Al di sopra della media nazionale si collocano tutte le regioni del Centro-nord, con l’eccezione dell’Umbria e la Sardegna, mentre il Sud (escluse le isole) presenta i livelli più bassi di spesa media pro capite (51 euro), circa tre volte inferiore a quella del Nord-est (161 euro).
(18 dicembre 2012) – Repubblica