La prima applicazione in Italia di un norma della cosiddetta «legge Brunetta», benché a 6 anni di distanza da quando è entrata in vigore, suona l’allarme per i 3,2 milioni di dipendenti pubblici probabilmente ignari di rischiare, qualora attestino falsamente la propria presenza sul lavoro, non il reato di «falso in atto pubblico» (di cui ha escluso la configurabilità la Cassazione a Sezioni Unite nel 2006), e nella maggior parte dei casi neppure il reato di «truffa allo Stato» (spesso eliso da assoluzioni nel merito), e tuttavia ugualmente una legnata: condanna da uno a 5 anni di reclusione, risarcimento del danno pari allo stipendio indebitamente percepito, e anche (se non forse soprattutto) conseguente licenziamento disciplinare.
Tutto in forza di una semisconosciuta norma della «legge Brunetta», e cioè l’articolo 55-quinquies del decreto legislativo 165/01, come modificato appunto dal decreto legislativo 150 del 2009: scomodo battesimo sperimentato ieri sulla propria pelle dal primario di un ospedale milanese accusato di aver fatto falsamente attestare la propria presenza sul lavoro: il medico, sebbene non processabile per falso in atto pubblico, e benché assolto infine anche dalla imputazione di truffa allo Stato, è stato infatti condannato con rito abbreviato dal giudice Paolo Guidi a un anno e 4 mesi (pena sospesa e non menzione), e a risarcire all’ospedale 30 mila euro di danni patrimoniali, più danni di immagine in separata sede civile. Sentenza che, dovesse diventare definitiva, farà automaticamente scattare il licenziamento disciplinare.
Il primario obiettava che il suo contratto lo retribuiva non a ore di presenza fisica (38 minime) ma a obiettivi, tutti centrati; prospettava che la timbratura (per interposta dirigente sanitaria condannata a 8 mesi) servisse se mai solo a fini medico-legali e a differenziare l’attività libero professionale intramuraria da quella istituzionale, non per attestare la prestazione lavorativa; e sottolineava come infatti l’ospedale mai gli avesse chiesto di ripianare il debito orario, consapevole che i primari non sono soggetti a obblighi di orario.
Questa sua difesa ha conseguito in effetti l’assoluzione dall’accusa di truffa allo Stato per la quale il primario era stato tratto in giudizio al termine di una inchiesta che aveva anche sfiorato lo scontro tra il procuratore Bruti Liberati e il suo vice Robledo, allorché di quest’ultimo si era lamentata la Squadra mobile a causa della duplicazione in Procura (sconosciuta sia a Robledo sia al collega Orsi, e dovuta a un disguido altrui nell’assegnazione iniziale) di due fascicoli sviluppati da carabinieri e polizia su questa stessa vicenda.
Ma nel verdetto il giudice ha recepito la conversione proposta in extremis dal pm Paolo Filippini, ha rispolverato la «legge Brunetta», e ne ha applicato il mai prima usato articolo 55-quinquies: «Fermo quanto previsto dal codice penale, il lavoratore dipendente di una pubblica amministrazione che attesta falsamente la propria presenza in servizio, o giustifica l’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o falsamente attestante uno stato di malattia, è punito con la reclusione da uno a 5 anni e con la multa da euro 400 ad euro 1.600» ed «è obbligato a risarcire il danno patrimoniale pari alla retribuzione nei periodi per i quali sia accertata la mancata prestazione, nonché il danno all’immagine subiti dall’amministrazione». E l’articolo 55-quater specifica che in questo caso «si applica la sanzione disciplinare del licenziamento».
Luigi Ferrarella – Il Corriere della sera – 12 maggio 2015