di Isidoro Trovato, CorriereEconomia. Regole europee e malesseri italiani. Il mondo dei medici è da mesi in agitazione per il combinato disposto di questi due fattori. In prima linea ci sono i problemi che arrivano dall’Europa. I limiti previsti dalla direttiva europea, che entrerà in vigore il 25 novembre, prevedono un minimo di ore continuative di riposo nell’arco di un giorno: 12 ore e 50, limite massimo di lavoro giornaliero (dopo 6 ore è prevista una pausa minima di 10 minuti), 48 ore limite massimo di durata media di lavoro settimanale compreso lo straordinario. La legge europea impone anche che chi lavora di notte debba starsene a casa anche prima di cominciare il suo turno, cioè si chiede di riposare prima di essere stanco e bisogna farlo per 11 ore di fila.La soluzione migliore sarebbe quella di assumere quei circa 20 medici che mancherebbero per ottemperare pienamente alle richieste della comunità europea.
Ma appare davvero improbabile che il governo, con la spending review, finanzi questi nuovi incarichi proprio mentre lo stesso contratto di lavoro della categoria fatica maledettamente ad arrivare in porto.
L’allarme
Altro tema caldo è la Riforma del Titolo V: approvato nel 2001 con lo scopo di adeguare le decisioni centrali alle realtà dei singoli territori, al provvedimento sono imputate l’incertezza normativa nel rapporto tra Stato e Regioni e, a corollario, la crescita incontrollata delle diseguaglianze di servizio. Da cui prestazioni a macchia di leopardo, con larghe sacche di inadempienza anche sul fronte dei livelli essenziali di assistenza. Secondo i sindacati dei medici la riforma in atto lascia intravedere spiragli di miglioramento, ma la strada per recuperare equilibrio appare impraticabile senza una volontà politica forte di programmazione e controllo. Regione che vai, sanità che trovi. «Si tende a colpire i medici perché sono il motore pulsante di un sistema — afferma Pina Onotri , segretario generale del Sindacato dei medici italiani —. Il Servizio sanitario nazionale, che continua a funzionare, nonostante tutto, grazie al loro lavoro, alla loro professionalità, all’abnegazione dei professionisti che ne fanno parte. Si colpiscono i medici, per destrutturare il sistema. E come rispondiamo all’assalto alla diligenza? Con una fiaccolata e con uno sciopero il 16 dicembre. Basta? Come dire: utilizziamo le cerbottane in risposta ai colpi di pistola. Una reazione legittima, per carità, ma forse un po’ anacronistica rispetto al grido di dolore lanciato duranti gli Stati generali, soprattutto dai giovani colleghi che vivono sulla loro pelle il disagio della precarietà, della formazione negata, delle tutele violate, dell’incertezza del futuro».
L’appello
Il governo è convinto che dietro la protesta dei medici e alla minaccia dello sciopero contro il decreto che taglia le prestazioni, le analisi e le diagnosi giudicate inutili, ci sia l’insofferenza della categoria per il mancato rinnovo contrattuale.
«Si ha la sensazione di stare andando verso la privatizzazione di interi segmenti del sistema — continua Onotri — così come già avvenuto anche in altri paesi, in modo trasparente e con un franco dibattito politico e legislativo, ma in Italia i governi, tutti, sono accomunati da una volontà strategica di demolizione dissimulata della sanità pubblica, ma non se parla, perché non conveniente elettoralmente. Questo non è un Paese per cittadini consapevoli e informati. Serve una massiccia campagna unitaria e a livello nazionale di raccolta di firme e di coinvolgimento dei cittadini con tre parole d’ordine: no al decreto “taglia prestazioni” della Lorenzin, per la difesa della sanità pubblica e per la tutela dei pazienti. Sarebbe un atto concreto e di grande importanza».
16 novembre 2015