Carlo Petrini. IL primo gennaio la giustizia italiana si ritroverà, di colpo, con ottocento nuovi casi su cui indagare. Quel giorno, i contadini della Federazione italiana vignaioli indipendenti attueranno una massiccia e clamorosa forma di disobbedienza civile. Sono uomini e donne (tra queste, la presidente dell’associazione, Matilde Poggi) che di solito non sono impegnati in proteste: piuttosto coltivano, raccolgono uva, vinificano, imbottigliano e vendono il loro vino: tutto in proprio.
E rappresentano, in molti casi, le eccellenze di tante piccole e grandi etichette di questo Paese. Eppure questa volta hanno deciso di cambiare registro e di dire basta, alla loro maniera, all’ultima beffa della burocrazia.
Tutto comincia con un caso e una multa che ha colpito un’azienda vinicola. Le norme europee vietano di usare sull’etichetta la località di una denominazione di origine a chi non produce un vino che non ne abbia il diritto: se non produco nella zona del Barolo, da un vigneto iscritto all’albo, e non ho passato i controlli previsti, non posso usare il nome Barolo. La legge provvede anche a dirmi che se ho la cantina nel Comune di Barolo, ma non produco quel vino, ma per esempio Barbera d’Alba, posso comunque scrivere la parola Barolo (il nome del Comune) in piccolo, al massimo 3 millimetri di altezza, per non confondere il consumatore. Fin qui, tutto bene. Ma è nei dettagli che si manifesta il diavolo. Se io, infatti, sull’etichetta della mia Barbara d’Alba, che faccio a Barolo, posso scrivere in piccolo Barolo, quello che non posso specificare, per legge, è che la mia cantina è nelle Langhe, né che si trova in Piemonte. E sì, perché sia Langhe sia Piemonte sono nomi di altrettante Doc, e se io non produco i vini con quelle denominazioni, semplicemente non ho più il diritto di scrivere dove si trova la mia azienda: posso indicare (in piccolo) solo il Comune in cui si trova, ma non la Regione, né in senso geografico né politico.
Come se non bastasse, ci sono anche le norme che regolano gli strumenti – brochure, siti internet, gli stessi cartoni che contengono le bottiglie per comunicare le caratteristiche del prodotto. Una interpretazione ottusa di queste regole fa sì che un produttore di una qualsiasi delle Doc più celebrate non possa dire al mondo dove si trova la propria azienda. Per star tranquillo, su internet ci si dovrà limitare a scrivere che la propria vigna è a Barolo, in un territorio tra il Mar Ligure e la Svizzera: perché anche la Valle d’Aosta è una Doc e guai ad usurparne il nome.
Si parla tanto del vino come ambasciatore del Belpaese e poi, per una interpretazione assurda delle leggi, si vieta letteralmente a chi lavora la terra di promuovere il proprio territorio in modo franco e adeguato. Ora Matilde Poggi e i viticoltori indipendenti della Fivi hanno deciso di dire «no». Dal primo gennaio, sui propri siti aziendali, tutti gli associati scriveranno la regione in cui si trova la propria cantina, anche se questa coincide con una denominazione controllata. Lo faranno perché sono convinti che non ci sia nulla che realmente confonda i consumatori in questa scelta, nulla di male nel dire al mondo con orgoglio dove si lavora e si produce. Questa colossale autodenuncia ha un obiettivo concreto: far intervenire il ministero per le Politiche agricole e il governo, perché l’applicazione delle norme dipende da funzionari che a loro rispondono.
Quella dei vignaioli della Fivi non è una battaglia di settore, ma una battaglia di tutti, che indica la strada per un diverso rapporto tra istituzioni, cittadini e lavoratori. Non possiamo più permetterci che qualcuno metta in ginocchio aspettative di onesti contadini che chiedono solo di poter dire dove lavorano, affliggendo un intero sistema, senza alcun vero beneficio per i cittadini che leggono le etichette. Dobbiamo riscrivere il patto o non ha alcun senso parlare di campi liberi e cambi di verso: se la burocrazia non diventa un servizio per aiutare le imprese a fare di più e meglio, invece che un goffo, miope e affamato gabelliere, davvero è smarrita ogni ragione della sua esistenza.
Repubblica – 21 novembre 2014