Lo speciale del Sole 24 Ore. Con una norma molto forte contro chi timbra il cartellino e poi non si presenta in ufficio e l’anticipo di una semplificazione sulla Scia (segnalazione certificata di inizio attività) la fase attuativa della delega Pa entra nel vivo. Sono undici i provvedimenti che hanno superato il primo esame del Consiglio dei ministri, circa la metà di quelli previsti per implementare l’intera riforma targata Madia (legge 124 del 7 agosto 2015). Il menù dei decreti legislativi spazia dai due testi unici sulle partecipate pubbliche e i servizi pubblici locali ai primi provvedimenti di riordino degli apparati statali, con la soppressione del Corpo forestale (con trasferimento di funzioni e personale all’Arma del Carabinieri) e la razionalizzazione delle autorità portuali (si passa dalle 24 attuali a 15 autorità di sistema). Si tratta, in quest’ultimo caso, di un semplice antipasto di quanto promesso nell’articolo 8 della delega.
Che porterà a interventi di più ampia riorganizzazione delle sedi periferiche delle amministrazioni statali, dei ministeri e della presidenza del Consiglio, delle agenzie governative nazionali e degli enti pubblici non economici nazionali.
Ma stiamo sui decreti appena sdoganati e che ora affronteranno il vaglio del Consiglio di Stato e della Conferenza unificata nonché delle Commissioni parlamentari competenti prima di arrivare (con modifiche che possiamo già dare per scontate) sulla Gazzetta Ufficiale dopo Pasqua. La misura che ha strappato i titoli dei giornali è quella sui disciplinari secchi contro i «furbetti del cartellino»: sospensiva da stipendio e posizione in 48 ore quando c’è la flagranza di falsa attestazione di presenza in ufficio, procedura disciplinare di licenziamento da chiudere entro un mese e, soprattutto, clamorosa responsabilizzazione dei dirigenti di settore che – nei casi in cui non procedano a segnalare la falsa attestazione della presenza o non attivino il procedimento o, ancora, non sospendano il dipendente – sono punibili con il licenziamento e la loro inerzia costituisce «omissione d’atti di ufficio». Un’ipotesi, quest’ultima, disciplinata dal Codice penale. Tornando al dipendente, chi timbra il falso non solo perderà il posto ma dovrà mettersi anche le mani in tasca, visto che può essere chiamato a rispondere per «danno d’immagine». In realtà questa non è una novità, perché già adesso è così, solo che ci saranno ora scadenze precise da rispettare e viene quantificato l’ammontare minimo della multa da versare quando l’accaduto è accompagnato da clamore mediatico: «Non può essere inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio».
Ma le novità sul personale non sono limitate nei confini della Pa propriamente detta, perché anche il riordino delle società partecipate è destinato a produrre una lunga serie di esuberi, proporzionale alla profondità della sua attuazione. I dipendenti in eccesso nelle società controllate entreranno in un meccanismo plasmato su quello in corso di complicata applicazione che sta coinvolgendo il personale delle Province: la Funzione pubblica gestirà gli elenchi degli esuberi, divisi per profili professionali, e le controllate che nel 2016-2018 dovranno pescare da lì a meno che dimostrino che la professionalità specifica che stanno cercando non è presente negli elenchi.
Per le società titolari di affidamenti diretti che “perderanno” il servizio in seguito alle gare, spinte dalla riforma dei servizi pubblici locali, scatteranno invece una serie di clausole sociali con il “ripescaggio” da parte del nuovo affidatario.
Nel primo “pacchetto attuativo” della delega c’è poi un insieme di misure di semplificazione dei procedimenti amministrativi cui guardano con particolare attenzione le imprese. La conferenza dei servizi diventa digitale (si potranno fare via mail nella stragrande maggioranza dei casi) e dovrà chiudersi entro due mesi, che salgono a un massimo di cinque in caso di opposizione di un’amministrazione e rinvio della procedura alla Presidenza del Consiglio. Semplificata anche la Scia, con l’impegno di attivare un ufficio unico di ricezione in ogni amministrazione e la pubblicazione del “modulo unico standardizzato” con le indicazioni degli ulteriori documenti, se necessari. Infine c’è un regolamento di delegificazione che, attivando poteri sostitutivi alla presidenza del Consiglio, punta a dimezzare i termini per la concessione di licenze, autorizzazioni o nulla osta per la realizzazione di grandi impianti o insediamenti industriali giudicati strategici per il loro impatto economico e occupazionale.
Sull’accesso alla Pa da parte di cittadini e imprese arrivano poi le semplificazioni del Codice per la Pa digitale (pin unico entro il 2017 e più spazi per i pagamenti smart anche con carte telefoniche prepagate) e la semplificazione delle norme su trasparenza e anticorruzione, con «accesso civico» riconosciuto a chiunque non solo agli atti ma anche a una serie di banche dati pubbliche.
Sulla sanità un provvedimento limiterà la discrezionalità nelle nomine dei manager delle Asl: le Regioni pescheranno i dg basandosi sulla rosa di candidati ricavata da un elenco nazionale attraverso commissioni apposite.
PER LA FALSA PRESENZA PUNIZIONE IN TEMPI BREVI
Uno dei decreti attuativi della riforma della pubblica amministrazione tenta di potenziare le misure – già ampiamente disciplinate dalla legge Brunetta del 2009 – di contrasto al fenomeno dell’assenteismo, mediante alcune modifiche all’articolo 55 quater del decreto legislativo 165/2001, il Testo unico sul pubblico impiego.
La prima modifica (comma 1 bis) riguarda la nozione di «falsa attestazione della presenza in servizio», che viene ampliata.
Secondo la nuova definizione, deve considerarsi come falsa attestazione della presenza qualunque condotta mediante la quale un dipendente (da solo o l’aiuto di terzi) faccia risultare di essere in servizio o comunque alteri l’orario di ingresso e uscita dal lavoro; si macchia dell’illecito anche chi agevola, con il proprio comportamento attivo od omissivo, la commissione dell’illecito da parte di altri.
Un’altra innovazione – quella che sul piano mediatico ha avuto maggiore eco – riguarda la sospensione dal servizio del dipendente colto in flagranza, entro le successive 48 ore dal fatto (commi 3 bis e 3 ter).
Se l’illecito di falsa attestazione viene accertato “in flagranza” o comunque mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi, il responsabile della struttura di appartenenza (oppure l’ufficio disciplinare competente, se viene a conoscenza prima del fatto) è obbligato a disporre la sospensione cautelare (con sospensione dello stipendio del dipendente), senza necessità di sentirlo preventivamente, entro 48 ore dalla conoscenza del fatto.
La sospensione deve essere disposta con “provvedimento motivato”: l’obbligo di motivazione è comprensibile, se si considera la rilevanza della misura che si va ad adottare, ma stride con l’estrema celerità dei tempi della procedura.
La sospensione è una misura temporanea, diversa dal licenziamento, ma i suoi effetti concreti – uscita immediata dal lavoro, sospensione della retribuzione – avranno tuttavia un effetto sostanzialmente anticipatorio dell’eventuale, futura misura di recesso dal rapporto.
La nuova disciplina, per evitare che il termine di 48 ore produca un effetto contrario a quello voluto, precisa che il superamento del termine medesimo non determina inefficacia della sospensione e non comporta la decadenza dall’azione disciplinare. Questo vuol dire che la sospensione potrebbe essere comminata anche dopo il superamento delle 48 ore, senza invalidare la misura o l’iter disciplinare (pur avendo possibili conseguenze disciplinari per i responsabili del ritardo).
Ulteriore novità riguarda l’introduzione di un procedimento disciplinare accelerato per i casi rientranti nella nuova normativa.
Si prevede, infatti, che, contestualmente all’irrogazione della sospensione cautelare, il responsabile della struttura deve trasmettere gli atti all’ufficio disciplinare, che deve avviare e concludere il procedimento a carico del dipendente entro i 30 giorni successivi al ricevimento dell’atto (o all’avvenuta conoscenza del fatto).
La legge introduce, inoltre, un’azione di responsabilità per danno di immagine a carico del pubblico dipendente che commette un illecito legato all’assenteismo. Secondo il nuovo comma 3 quater, nei casi di falsa attestazione della presenza il responsabile della struttura deve denunciare il fatto al pubblico ministero e trasmettere gli atti alla Procura regionale della Corte dei conti entro 15 giorni dall’avvio della procedura disciplinare.
La Procura, entro tre mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento, può richiedere al dipendente licenziato il risarcimento per danno di immagine alla pubblica amministrazione.
Il danno viene liquidato dal giudice in via equitativa, tenendo conto della rilevanza che ha avuto la vicenda sui mezzi di informazione, ma – ove accertato – il suo ammontare non può essere inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio percepito dal dipendente.
IL POTERE DI CONTROLLO
Licenziabile il dirigente che copre l’assenteista
Per contrastare i fenomeni di falsa attestazione della presenza in servizio da parte dei dipendenti, lo schema di decreto legislativo approvato dal Consiglio dei ministri introduce misure che, oltre ad agire sul piano di una maggiore celerità del procedimento disciplinare e della tempestiva adozione di provvedimenti cautelari prima del suo svolgimento, mirano a responsabilizzare la dirigenza secondo due principali linee di intervento.
Una prima modalità d’intervento consiste nel comprimere la discrezionalità del dirigente nel caso in cui si verifichino i fenomeni di falsa attestazione della presenza in servizio accertata in flagranza o tramite sistemi di sorveglianza o di registrazione degli accessi.
Sulla base di quanto previsto dalle novità introdotte dal decreto Madia, infatti, il dirigente (se abbia acquisito la conoscenza dei fatti prima dell’ufficio per i procedimenti disciplinari) deve disporre la sospensione cautelare del dipendente entro 48 ore e deve contestualmente trasmettere gli atti a quest’ultimo ufficio per l’avvio del procedimento disciplinare.
Per dare effettività a tali obblighi incombenti sul dirigente, il decreto legislativo prevede, inoltre, una seconda linea di intervento, stabilendo che, laddove il dirigente non provveda ad espletare tali incombenti, egli sia punibile con il licenziamento.
Non è tanto la previsione di una sanzione disciplinare da applicare nei confronti del dirigente inadempiente a costituire un aspetto di novità nel nostro ordinamento: già infatti l’articolo 55 sexies, comma 3, del Testo unico sul lavoro pubblico, introdotto dal Dlgs 150/2009, aveva previsto che il mancato esercizio o la decadenza dell’azione disciplinare, dovuti all’omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare o a valutazioni sull’insussistenza dell’illecito disciplinare irragionevoli o manifestamente infondate, in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare, comportasse la sospensione dal servizio con perdita della retribuzione fino a un massimo di tre mesi e la mancata attribuzione della retribuzione di risultato per un importo pari a quello spettante per il doppio del periodo di durata della sospensione.
Il decreto legislativo, sotto questo profilo, agisce quindi in una logica di continuità con la norma citata (tuttora vigente e applicabile a tutti gli altri casi non contemplati dal decreto di riforma), inasprendo tuttavia la sanzione applicabile nei casi di falsa attestazione della presenza in servizio.
Nella speranza che questa sanzione più incisiva, unita alla previsione che tali comportamenti costituiscano omissione di atti d’ufficio e quindi sono valutabili anche come fattispecie criminosa di cui all’articolo 328 del Codice penale, aumenti l’effetto di deterrenza e quindi induca maggiormente il dirigente ad assolvere i compiti del proprio ufficio.
Tali misure, per quanto possano essere ritenute efficaci, inducono ad interrogarsi, anche alla luce dell’esperienza trascorsa dall’entrata in vigore del Dlgs 150/2009, sulla loro esaustività rispetto a fenomeni purtroppo diffusi, che appaiono piuttosto il sintomo che non la malattia da curare.
È evidente, infatti, che, quando si siano verificati reiterati episodi di assenteismo, viene da chiedersi, per esempio, come sia stato esercitato il potere di controllo da parte del dirigente (o, negli enti sprovvisti di dirigenza, da parte dei responsabili di servizio), quali direttive egli abbia impartito per rendere produttivo il servizio evidentemente compromesso dall’ingiustificata assenza dei dipendenti e come egli abbia valutato i dipendenti che si sono sottratti ai loro obblighi lavorativi e come egli stesso sia stato valutato dagli organi preposti: tutte problematiche che, anche nell’ipotesi in cui il dirigente, una volta accertati i comportamenti fraudolenti dei dipendenti assenteisti, adempia agli incombenti che le nuove disposizioni gli impongono, sono destinati in altro modo a riproporsi.
La diffusione di pratiche assenteiste coinvolge, pertanto, questioni che debbono essere affrontate in una logica di sistema, ricercando una risposta che non miri solo ad un agire tempestivo, ma anche a contrastare il terreno sul quale attecchiscano comportamenti di questo tipo.
L’attuazione della legge delega 124/2015, che ha tra gli altri obiettivi quello della riforma della dirigenza pubblica, costituirà pertanto un’importante occasione per incidere su ciò che le pur condivisibili misure eccezionali introdotte dal decreto in commento da sole difficilmente possono risolvere.
RISARCIMENTI
Il danno all’immagine costa sei mesi di stipendio
Tra le misure finalizzate a contrastare la diffusione dell’assenteismo dei dipendenti pubblici, lo schema di decreto delegato approvato dal Consiglio dei ministri prevede che, a seguito di falsa attestazione della presenza accertata in flagranza ovvero mediante strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi, debba essere effettuata la segnalazione dei fatti alla Procura regionale della Corte dei conti entro quindici giorni dall’avvio del procedimento disciplinare, quando esso potrebbe essere ancora in corso di espletamento. La Procura, se ricorrono i presupposti, emette l’invito a dedurre per danno all’immagine entro tre mesi dalla conclusione della procedura di licenziamento. Esiste quindi un onere di comunicazione da parte dell’amministrazione dell’esito del procedimento disciplinare alla Procura dopo la segnalazione.
La Procura della Corte dei conti deve esercitare l’azione di responsabilità entro i 120 giorni successivi alla «denuncia», senza possibilità di proroga. Non è chiaro che cosa debba intendersi per «denuncia» come termine d acui calcolare i 120 giorni e, se essa fosse riferita alla segnalazione, i tempi sarebbero incongrui in quanto, considerati i termini di conclusione del procedimento disciplinare e quelli a disposizione per l’emissione dell’invito a dedurre, residuerebbe un ristrettissimo margine per l’esercizio di tale azione. Meglio quindi fare riferimento al richiamo contenuto nel comma 3-quater dell’articolo 55 quater all’articolo 5 del Dl 453/1993 e considerare qindi il termine dei 120 giorni decorrente dalla data di scadenza del termine per la presentazione delle deduzioni da parte del presunto responsabile.
Novità di rilievo riguardano anche la quantificazione del danno all’immagine. Sotto questo profilo, l’articolo 55-quinquies, comma 2. del Dlgs 165/2001, introdotto dall’articolo 69, comma 1 del Dlgs 150/2009, aveva già previsto una norma speciale rispetto alla previsione di carattere generale contenuta nell’articolo 17, comma 30-ter del Dl 78/2009, applicabile nei casi di falsa attestazione della presenza in servizio e che dispone un risarcimento pari alla retribuzione nei periodi per i quali sia stata accertata la mancata prestazione, nonché il danno all’immagine.
Il comma 3-quater introdotto dal nuovo decreto, derogando alla quantificazione in via presuntiva del danno all’immagine (articolo 1, comma 1-sexies della legge 20/1994), pari al doppio della somma o del valore di altra utilità illecitamente percepita dal dipendente) stabilisce che l’entità del danno sia determinata in via equitativa «anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione» e non possa essere in ogni caso inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio, oltre a interessi e spese di giustizia.
Resta fermo, inoltre, il risarcimento dell’ulteriore danno erariale causato dai compensi erogati per prestazioni non rese a causa dell’assenza del dipendente, anche se sembrerebbe doversi avviare una procedura distinta rispetto a quella da svolgere in forma “d’urgenza” limitata al solo danno all’immagine.
IL PROBLEMA APERTO
Gli statali al bivio sulle tutele crescenti
I primi decreti attuativi della riforma della pubblica amministrazione non sciolgono il grande dubbio sul regime sanzionatorio applicabile ai dipendenti pubblici, nei casi in cui il licenziamento venga dichiarato ingiustificato da un giudice del lavoro.
Il problema non dovrebbe esistere, in un ordinamento nel quale, per tanti anni, si è lavorato alla cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego. Il principio della privatizzazione, culminato nel Testo Unico sul pubblico impiego (decreto legislativo 165/2001) ha subito tuttavia rilevanti deroghe. Una di queste sembrava essere stata introdotta nel 2012, quando la riforma Fornero ha cambiato in profondità l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, marginalizzando la sanzione della reintegra sul posto di lavoro e ponendo al centro del sistema la tutela indennitaria.
Tutti i commentatori ritenevano che tale innovazione non riguardasse i lavoratori pubblici, ma il convincimento di questa diversità è stato bruscamente vanificato da una sentenza recente della Corte di cassazione (la 24157/2015), con la quale i giudici di legittimità hanno evidenziato che non esiste, nella legge Fornero, una norma che consente di escludere l’applicabilità del principio, contenuto nell’articolo 51 del Testo Unico sul Pubblico Impiego, che assoggetta lavoratori pubblici e privati allo stesso regime sanzionatorio in materia di licenziamenti.
La sentenza della Corte di cassazione non si è occupata, invece, del tema relativo all’applicabilità del regime delle tutele crescenti (decreto legislativo 23/2015), vigente nel settore privato per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo del 2015.
Questa disciplina si applica anche i nuovi assunti del pubblico impiego? Nessuno può dare una risposta certa alla domanda, in quanto il decreto non affronta apertamente la questione; in mancanza di una norma interpretativa, il chiarimento potrà venire solo dalla giurisprudenza.
La risposta negativa potrebbe far leva sul fatto che il Dlgs23/2015 non modifica il vecchio articolo 18, e quindi la norma cui rinvia il Testo Unico sul Pubblico Impiego resta invariata: applicando questo ragionamento, i dipendenti pubblici neo assunto sarebbero quindi soggetti solo alla legge Fornero (come ha deciso la Cassazione), senza che per i nuovi assunti si potesse ipotizzare l’applicazione dell’ultima riforma.
La risposta positiva deriverebbe, invece, da considerazioni più generali: applicando un ragionamento simile a quello svolto dalla Cassazione con riferimento alla legge n. 92/2012, si potrebbe sostenere l’inapplicabilità delle tutele crescenti anche ai dipendenti pubblici solo in presenza di una norma che espressamente stabilisse che il Dlgs 23/2015 vale solo per i lavoratori privati.
Questa norma non esiste – nemmeno nei recenti decreti che riformano le regole del lavoro pubblico – e quindi non sarà facile escludere l’applicabilità delle tutele crescenti anche per i lavoratori assunti dalla pubblica amministrazione a partire dal 7 marzo del 2015.
Il Sole 24 Ore – 26 gennaio 2016