Come preventivato l’astensionismo è stato massiccio: ha votato solo il 52% dei sardi, 15 punti in meno delle elezioni 2009. Non c’è stata l’infausta combinazione che nel 2009, alla mancata rielezione di Renato Soru in Sardegna, provocò lo smottamento della segreteria di Walter Veltroni al vertice del Pd. Questa volta le congiunzioni politiche hanno partorito un lunedì 17 febbraio da incorniciare: mandato a Matteo Renzi al mattino e vittoria di Francesco Pigliaru, renziano della prima ora malgrado non sia iscritto al Pd, poche ore dopo.
Un successo per nulla scontato, un po’ per via delle lotte intestine all’interno del Pd (la candidatura di Pigliaru è arrivata cinque settimane prima del voto), un po’ perché si temeva che le liste indipendentiste guidate dalla scrittrice Michela Murgia avrebbero drenato consensi proprio nello schieramento progressista, il tutto condito da un’astensione massiccia (il 15% in meno dei votanti rispetto alle regionali del 2009) così come pronosticato da tutte le rilevazioni. Kelledda, cosi viene chiamata nell’isola la Murgia, sì è fermata al 10 per cento. Un risultato niente affatto disprezzabile per una formazione politica al suo esordio, flagellato però dal meccanismo punitivo per le formazioni minori previsto dalla legge elettorale sarda, varata appena sette mesi prima del voto. «Ci hanno scelto 70mila sardi, se non siamo in Consiglio è per via di una legge antidemocratica e liberticida voluta dal centrodestra e dal centrosinistra», ha ringhiato la Murgia non appena si sono delineati il risultato elettorale e la vittoria del centrosinistra.
Pigliaru, economista e prorettore dell’università di Cagliari, si è lasciato andare a un gesto liberatorio con le braccia e il volto alzati verso il cielo solo dopo l’incitamento convinto dei suoi sostenitori, sicuri ormai del risultato finale. Il professore si è abbandonato alla commozione qualche minuto dopo, in una stanzetta appartata dove lo hanno sospinto i suoi collaboratori più fidati: abbracci, qualche urlo strozzato e più di una lacrima. Qualche minuto prima aveva ricevuto la telefonata di congratulazioni «sincere» di Ugo Cappellacci, il governatore uscente cui è toccato in sorte di gestire gli anni più drammatici vissuti nell’isola dal dopoguerra in avanti. Una sconfitta da imputare al calo molto forte dei consensi – nell’ordine del 12% – registrato da Forza Italia rispetto alle passate regionali del 2009. Probabile che gli elettori non abbiano gradito neppure la modifica tre giorni prima del voto del piano paesaggistico voluto da Renato Soru. Una mossa in extremis, quella di Cappellacci, alla quale Pigliaru ha dichiarato di voler porre subito rimedio.
Se c’è una cosa che sostenitori e avversari riconoscono al neogovernatore, comprovato dai consensi degli elettori, è quella combinazione di competenze e conoscenze senza le quali è oramai praticamente impossibile gestire le sorti di Regioni con poteri amplissimi che in Sardegna sono moltiplicati dallo Statuto speciale conquistato nel 1948.
Ora la parola torna alla politica. Pigliaru riprenderà le redini del governo regionale lì dove le aveva lasciate all’alba dell’ottobre 2006, quando abbandonò l’incarico di assessore alla Programmazione a causa di uno scontro con l’ex governatore Soru. La politica economica e la programmazione come le stelle polari della buona politica. Per questo è molto probabile che la poltrona che fu di Pigliaru venga affidata a Raffaele Paci, studioso di Econometria sempre a Cagliari e alter ego accademico del neogovernatore. Occupazione, formazione (fu Pigliaru a inventare il master and back, il sistema che favoriva il rientro in Sardegna per i laureati con master all’estero, poi ribattezzato, per il numero non esaltante dei ritorni nell’isola, master senza back) e la vertenza “entrate”, la negoziazione con lo Stato centrale, sempre inaugurata da Pigliaru, di un nuovo meccanismo che consenta alla Sardegna di mantenere nell’isola il gettito prodotto e non solo quello riscosso. Una partita che vale 1,6 miliardi.
Il Sole 24 Ore – 18 febbraio 2014