Il problema del latte alle aflatossine, in parte utilizzato per produrre formaggi, ha origine nei campi. Ovvero nel mais contaminato che hanno mangiato (da settembre a dicembre) le vacche da latte di una trentina di allevatori. Quelli indagati dalla procura di Brescia perché non hanno comunicato all’autorità sanitaria il risultato delle trecento analisi in autocontrollo consegnate loro da tre laboratori privati e dall’Istituto zooprofilattico.
Per questo proseguono le indagini dei carabinieri dei Nas, che stanno risalendo tutti i passaggi della filiera per rintracciare latte contaminato. Al momento sono finite sotto sequestro sanitario 7mila forme di formaggio, stoccate in cinque caseifici della provincia (quattro nella Bassa e uno sul Garda) associati al consorzio Grana Padano. Forme che non hanno ancora ricevuto il rinomato marchio e che verranno sottoposto ad altri rigorosi controlli. Anche se i vertici del consorzio Grana Padano e le associazioni agricole (Coldiretti e Upa) assicurano che il latte utilizzato per produrre quei formaggi «era a norma». Ovvero: le analisi sul latte di massa delle cisterne che quotidianamente passano a ritirare il latte nelle singole stalle, non avrebbero mai riportato valori superiori ai 50 nanogrammi per litro di cancerogena e genotossica aflatossina M1. La singola stalla poteva essere fuorilegge. Ma il prodotto di tante stalle messe insieme sarebbe in regola. Infatti gli operatori del settore ribadiscono che la quasi totalità di quelle forme, alla fine, potrà essere commercializzata. Anche perché, nella lavorazione del grana, metà delle aflatossine si «disperde» nel siero, andando quindi ad abbassare ulteriormente la sua presenza.
Il problema però rimane: per legge è vietata la diluizione del latte contaminato con latte «sano». Per questo l’ipotesi di reato mossa dal sostituto procuratore Ambrogio Cassiani si basa sull’articolo 440 del codice penale (adulterazione e contraffazione di alimenti). E va ricordato che due grandi aziende del settore come Centrale del Latte e gruppo Ambrosi hanno denunciato alle autorità l’arrivo nei loro stabilimenti di cisterne dove il latte di massa superava la soglia d’attenzione (40 nanogrammi al litro). Si diceva del mais contaminato. Durante le indagini dei Nas sta emergendo come il problema della contaminazione abbia avuto origine dall’utilizzo di granella di mais coltivato dagli stessi agricoltori mais «poco controllato». Mais «stressato» dall’estate più calda dell’ultimo secolo e intaccato dai pericolosi funghi, trasportati da una pianta all’altra da un insetto infestante come la piralide. «Chi vuole fornire il latte per il Grana Padano avrebbero dovuto vendere il mais contaminato e comprare quello comunitario e certificato – ha detto al Corriere il direttore del consorzio Grana Padano, Stefano Berni -. C’è una differenza di tre euro al quintale, che non ha grande peso sul bilancio aziendale». I mais della fredda Europa dell’Est infatti hanno una concentrazione molto minore di aflatossine. Ma in un momento di crisi nera, dove gli allevatori sono alle prese con mutui, banche, redditi da fame (il latte è pagato meno di 0,35 euro al litro) anche comprare i mangimi può diventare una spesa insostenibile, così come il cambio d’alimentazione per le vacche (eliminando per esempio il mais a favore del fieno, come fa il Parmigiano Reggiano) .
C’è però un problema di scarsità di controlli sul mais. Eppure lo stesso ministero della Salute dal 2013 (dopo i casi aflatossina scoppiati nell’autunno 2012) prevede importanti linee guida per «un approccio diretto alla prevenzione della possibile immissione nella catena alimentare o mangimistica del mais contaminato». Chiede alle autorità competenti «di verificare le procedure di autocontrollo»; «l’adeguatezza delle frequenze di ricerca per aflatossine». Che fanno le grandi aziende mangimistiche, non i piccoli allevatori che producono mais per l’autoconsumo. Il granoturco infetto va venduto alle aziende di biogas. Certo, la Regione dopo il recente scoppio del caso aflatossine è corsa ai ripari, prevedendo un piano straordinario di campioni sul latte di stalla: 1370 da qui a fine anno solo nel Bresciano, mentre nei precedenti quattro anni i controlli erano in costante calo (249 nel 2013, 210 nel 2014, 124 nel 2015 e solo 50 nei primi quattro mesi del 2016). Ma non sono stati potenziati i controlli sulla vera fonte d’aflatossina: il mais.
Corriere.it – 21 marzo 2016